Di Aretusa, Dafne, Leucotoe e le altre: contro lo stereotipo della violenza di genere nel mondo antico

Questo numero di Mito e logos esce eccezionalmente di sabato, e in voluta concomitanza con la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (di cui la redazione di Laboratori Poesia già l’anno scorso si è occupata in un lungo speciale disseminato tra più voci: Franco Buffoni, Eugenia Toni, Maria Dell’Anno, Mario Lentano, Olga Cirillo, Ilaria Palomba, Lucianna Argentino, Patrizia Maltese, Felicia Buonomo, Virginio Zoccatelli, Alessandro Canzian e con l’Aps Scarpetta Rossa) per fare un focus sul tema della violenza di genere.

Se la storia di Giulia Cecchettin avesse fatto parte della dimensione del mito, nel momento più tragico della vicenda, quello dell’aggressione, le sue preghiere, perché immaginiamo che abbia pregato, scongiurato, sarebbero state ascoltate, e forse, come succedeva alle protagoniste del mito classico, lei sarebbe diventata fonte, albero o fiore. Sarebbe divenuta altro da sé in quella che, nei miti, è l’altra morte, o una sua splendida alternativa: la metamorfosi.

È forse così che il grande imputato proverebbe a discolparsi: in un processo che tende a derubricare la responsabilità dei singoli attribuendola a un fenomeno di costume, il mondo classico che con i suoi miti si fonda, senza alcun dubbio, sul patriarcato sembra costretto a cercare l’assoluzione. Troppo impegnati a chiederci se questo modello culturale domini ancora nel nostro tempo, rischiamo di dimenticare l’ovvio, e che cioè esso costituisca comunque l’origine della nostra cultura, la casa da cui proveniamo: il ritrovarsi a condividere questa consapevolezza, tuttavia, è non solo un atto necessario, ma anche una spia per aiutarci a capire come anche nel passato, che mai deve costituire un esempio, ma piuttosto un riferimento e una possibilità di confronto, la violenza di genere non venisse pacificamente accettata. Nel grande calderone della cancel culture, come in tutti i fenomeni superficiali e culturalmente ignobili, non esiste differenza tra mito e storia, tra letteratura e realtà, tra cronaca e invenzione, tra pace e guerra: a dominare è solo la categoria della narrazione, che troppo spesso azzera ragionevolezza e capacità di distinguere. E, invece, le distinzioni tra un tempo e l’altro, tra un’azione e la sua approvazione restano essenziali, sempre.

Uno dei più straordinari interpreti e narratori del mondo antico è il poeta Ovidio di Sulmona (43 a. C.- 17 d. C.), già protagonista di altri numeri di questa rassegna, per la meravigliosa qualità artistica della sua opera che spesso confonde i lettori grazie al dono di un verso tanto vivo ed evocativo da risultare avulso da qualsiasi implicazione temporale. Nelle sue Metamorfosi, epica narrazione delle origini e delle forme del mondo, rielabora incessantemente le vicende dei più noti miti greci, quasi sempre impregnate di violenza e sopraffazione, quasi sempre nelle relazioni di genere, quasi sempre centrate sull’eros. Alcune tra le più celebri: Apollo e Dafne; Apollo e Leucotoe; Giove e Callisto; Giove e Semele; il ratto di Proserpina; Tereo, Procne e Filomela e potremmo continuare a lungo. In tutti questi casi, la donna, ma anche la dea o la ninfa, le varie forme che incarnano il femminile, per intenderci, subiscono un’aggressione gratuita, motivata da null’altro che dalla propria bellezza e dal desiderio frustrato dell’elemento maschile, quasi mai un uomo e, quando tale, non un uomo comune, ma almeno un re, più spesso un dio. L’aggressione culmina in una climax di prepotenza, violenza e giunge non all’uccisione, ma alla sopraffazione totale della vittima, che, seppure riesce a non subire l’amplesso, perde la propria forma per diventare altro e, comunque, morire a se stessa. Del personaggio che era, la nuova entità conserva null’altro che il nome, e qualche dettaglio che talvolta allude alla vicenda o al torto subito.

E dunque, in tale scenario, cos’è che dovrebbe indurci a riflettere sul fatto che, nel mondo antico, la violenza di genere, la violenza nella relazione tra maschile e femminile non sia accettata e condivisa?

Forse, proprio il fatto che essa diventi oggetto di tali e tanti racconti. Proprio che sia messa al centro dell’attenzione e che nella sua stessa narrazione l’agire violento dell’aggressore risuoni con parole dense di implicita riprovazione e distanza, ma anche di pietà, di una dolce malinconia per l’aggredita, il tutto senza alcuna ostentazione, senza un giudizio morale, senza un attributo che aiuti chi legge a trovare una guida nel proprio sentire, bensì in modo tale che esso emerga spontaneo, dolente e turbato, dalla violenza impari cui è costretto ad assistere, impotente. E la consolazione della non-morte, della metamorfosi in qualcosa che resta, ma in una forma nuova dell’esistenza, funziona sì da consolazione e conforto, ma anche come monito perenne, monumento eterno alla memoria di una sopraffazione.

In un mondo che accettasse pacificamente la violenza di genere, non se ne farebbe un tema dominante della propria cultura, non vi si ancorerebbero gli aspetti del reale, della natura, o di momenti salienti della propria storia, di una stirpe o di una struttura politica. Si può essere ostili al retaggio del patriarcato, posto che si comprenda cosa realmente sia, perché patriarcato è potere del padre, non del maschio; si può, e certo si deve, prendere le distanze dalla misoginia, che non è affare solo da uomini, ma non si dovrebbe commettere l’errore di neutralizzare elementi ideologici che distinguono un atteggiamento dall’altro e che, in ogni caso, non implicano la violenza come necessità.

La violenza non è mai necessaria, salvo che tra le bestie che lottano per la preda.

Per l’essere umano la violenza, anche quella di genere, è sempre una scelta: la scelta di abdicare alla ragione.