Speciale contro la violenza di genere: Maria Dell’Anno


 

In occasione del 25 novembre, Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le Donne, la redazione di Laboratori Poesia sospende la programmazione dell’intera settimana e dedica, ogni giorno, lo spazio delle pubblicazioni a riflessioni e interviste. Anche con uno sguardo alla pluralità delle prospettive. Dopo il commento di Eugenia Toni Donne che non aiutano le donne riportiamo quindi un commento di Maria Dell’Anno, giurista, criminologa, scrittrice che domani dialogherà sul suo E ‘l modo ancor m’offende. Voci di donne vittime di femminicidio (San Paolo Edizioni, 2022) a Brisighella all’interno del ciclo Cotidie Legere, con Elisabetta Zambon.

La Redazione

 
 

Da alcuni dedico molta parte della mia scrittura a spiegare e combattere la violenza maschile contro le donne, e ad un certo punto di questo percorso – dopo aver analizzato cos’è la violenza maschile contro le donne nel saggio Se questo è amore e come essa viene raccontata dai giornali in maniera distorta in Parole e pregiudizi-, ho sentito l’esigenza di dar voce alle donne, di raccontare la loro versione della storia. Perciò ho deciso di scrivere i racconti del libro E ‘l modo ancor m’offende in prima persona: perché solo cambiando la narrazione, il punto di vista, possiamo comprendere la realtà di questa perfida forma di violenza che quotidianamente discrimina le donne e impedisce loro di vivere libere. Ho voluto raccontare storie vere, donne vere, alcune di quelle che in questi anni mi hanno più emozionata. Ho avuto anche il privilegio di confrontarmi con i familiari di alcune di loro, e ciò ha dato maggiore autenticità alle loro voci. La postfazione del libro è scritta dalla madre di una delle donne protagoniste: Giovanna Ferrari.

Le voci di queste donne costituiscono una contro-narrazione al modo in cui siamo abituati a sentir parlare della violenza di genere, soprattutto ma non solo il 25 novembre. Per questo sono voluta partire da una donna che tutte e tutti abbiamo ascoltato, senza in realtà capire di cosa ci stava parlando: Francesca da Polenta. “Il mondo parla di me da secoli. Perché il mondo parla solo dei miei peccati, delle mie colpe, della mia morte? Come se le mie colpe giustificassero la mia morte. Perché il mondo non parla mai delle colpe di chi mi ha uccisa? Delle sue colpe, del suo peccato, della sua violenza impietosa nessuno si è mai scandalizzato, nessuno si è mai sorpreso. Anzi, sono date per scontate.

Quasi sempre sono le vittime ad essere indagate per le loro presunte colpe, le loro mancanze e le loro ambiguità; la colpevolizzazione delle donne è una delle caratteristiche più difficili da sradicare in questo tipo di violenza: è l’unico caso in cui di un reato non è considerato colpevole chi lo ha commesso bensì chi lo ha subito. Si tratta di una distorsione culturale talmente profonda da essere diventata inconscia. “Sono stata io a far perdere la testa a Claudio, questo hanno detto. Me la sono cercata, anche questo hanno detto, in un misto di ignoranza e pregiudizio, diminuendo così la percezione delle colpe di Claudio”, spiega Marilia Rodrigues Silva Martins.

Il femminicidio, invece, è causato dalla cultura patriarcale che mira a controllare e a limitare la libertà delle donne. Non dalla follia, non dalla malattia, non dall’onnipresente raptus. Certo è più facile pensare che l’uomo che ha ucciso sua moglie sia pazzo o malato, perché accettare che è semplicemente un uomo figlio della sua società non è per niente rassicurante, perché i pazzi e i malati sono “altri” rispetto a noi, noi siamo al sicuro; ma se è la cultura ad ucciderci allora può succedere a tutte. E può succedere a tutte, questa è la triste verità. Perfino a Stefania Noce: era una giovane attivista femminista, eppure è stata uccisa anche lei. “Uccisa da un uomo che ha detto di amarmi più della sua vita. Una bella contraddizione, non credete? Mi amava più della sua vita; eppure la vita l’ha tolta a me.

Gli uomini ci uccidono perché non accettano la nostra libertà. Ci uccidono nel momento in cui diciamo no, in cui ci ribelliamo, in cui usciamo dal ruolo che fino ad allora avevamo interpretato. Ci uccidono perché la cultura maschilista ha insegnato loro che non possono perdere e che soprattutto non possono perdere contro una donna. Ci uccidono “per non darcela vinta”. Come spiega Giulia Galiotto: “Mio marito voleva disfarsi di me. E mi sento di precisare che il verbo “voleva” implica una decisione cosciente e non un raptus, o come è stato detto nel suo caso “uno scompenso emozionale”. Mio marito, a un certo punto della nostra vita, ha deciso che non gli andavo più bene come moglie, come compagna della sua esistenza, e semplicemente si è disfatto di me, mi ha gettata via. Letteralmente.

Quindi, per favore, non parlate di amore in riferimento all’uccisione di una donna da parte del suo compagno; non parlate di gelosia per descrivere un’ossessione di possesso. “L’amore non può avere a che fare con l’omicidio. In nessun caso.” Lo afferma Alice Bredice nel suo racconto. Affermare che un assassino era innamorato della sua vittima non ha alcun senso logico, serve solo ad attenuare la responsabilità e la gravità dell’azione violenta dell’uomo. “Quale migliore prova che Simone non mi amasse del fatto di avermi uccisa? È un controsenso evidente che si uccida chi si ama. Il suo no, non era amore. Nessuno uccide per amore! Si uccide per possesso, per dominio, per rabbia o per vendetta, ma mai per amore.

Ciò che è fondamentale comprendere, infine, è che lottare contro la violenza maschile sulle donne non significa sognare un mondo in cui i rapporti di dominio possano finalmente capovolgersi per far subire all’uomo ciò che la donna ha subìto per millenni: l’obiettivo non è affatto ribaltare le posizioni di dominio – come molti uomini sembrano temere –, bensì uscire definitivamente da questa logica in cui qualcuno deve necessariamente dominare l’altro. Essere dalla parte delle donne vuol dire lottare per costruire una società egualitaria, in cui ci sia rispetto tra uomini e donne, in cui nascere maschio o femmina non significhi avere già un destino e una posizione sociale predeterminata, in cui tutte e tutti siano semplicemente libere e liberi di vivere la propria vita in qualunque modo desiderano.

Maria Dell’Anno