In occasione del 25 novembre, Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le Donne, la redazione di Laboratori Poesia sospende il programma dell’intera settimana e dedica, ogni giorno, lo spazio delle pubblicazioni a riflessioni e interviste. Molti gli amici poeti, scrittori, studiosi che hanno risposto al nostro appello. Molte le posizioni, le prospettive, a beneficio di una pluralità fondante un approccio critico e culturale. Oggi è la volta della scrittrice e poeta Ilaria Palomba, da poco uscita grazie a Les Flâneurs Edizioni col libro Vuoto. Una prospettiva da dentro la vita stessa.
La Redazione
Abuso e reciproca dipendenza
Ciò che mi tormenta è il giudizio, anche il silenzio è un giudizio feroce. Preferisco essere odiata che essere ignorata. Però, questo me lo ricordo da quando sono bambina, non riesco mai a fare una telefonata. Non ti fai mai sentire, mi dicono gli amici di un tempo. Quando mi capita di sbilanciarmi, di essere troppo presente, mi sento trafitta.
Non mi importa che un uomo frequenti altre donne, ciò che conta è che io sia ritenuta da lui importante. A volte questa importanza passa per prove molto ardue, o almeno è accaduto. Ed ero disposta a tutto perché mi cercavo nello sguardo dell’altro. Ciò che uno definirebbe dissipazione, visto da vicino non era che fragilità. Col senno di poi, di molte futili relazioni insane avrei potuto fare a meno. Anche se fare a meno di loro significava in qualche modo morire, perché era proprio la turbolenza di una relazione instabile a farmi sentire viva.
Dopo, è accaduto qualcosa: la mediazione letteraria ha portato tutto su un altro piano, se vogliamo più pericoloso, più ingestibile. Ma è così che ho scritto Vuoto. Con l’idea di questa dipendenza nata da una violenza che diventa necessaria. Perché bramiamo l’amore dei nostri carnefici. E posso dirlo ora che mi sono liberata di tutto. Ho assistito alla visione di una me stessa quasi bambina che si piegava alle volontà di un ragazzo molto esigente, in Disturbi di luminosità (Gaffi) e in Vuoto (Les Flaneurs) ho raccontato in due modi diversi questa violenza.
È sempre stato difficile per me comprendere il confine tra abuso e sottomissione volontaria. Molto di ciò che è stato l’ho permesso io. Ma non dobbiamo – nessuna donna dovrebbe – colpevolizzarci per questo. La paura del giudizio, la fame di attenzioni attirano chi di queste fragilità si nutre. Allora è lì che bisogna lavorare, su quella fame, su quel bisogno disperato d’amore. In fin dei conti, una violenza si dà ogni qual volta si abusi delle fragilità dell’altro.
Cos’è la fragilità? Talvolta può risultare feroce, una fragilità non è automaticamente una diagnosi – come a molti farebbe comodo – a volte è solo una difficoltà nel gestire le proprie emozioni. Io per esempio non sopporto i no, le frustrazioni mi risultano intollerabili. Ciò nella vita ha fatto sì che non cercassi mai nulla fuori da ciò che mi si dava come certo: ho delimitato un campo e lì ho deciso di abitare, il fuori è qualcosa che non mi riguarda. La stessa fragilità la applico al mio corpo, non mi sono mai piaciuta; fotografarmi di continuo non è un atto narcisistico quanto piuttosto un modo di cercare la propria identità: cercare lo stesso in scatti sempre nuovi.
La vita mi ha posto quasi sempre, dalla prima adolescenza in poi, di fronte a persone che mi chiedevano prove sempre più difficili. Non riuscivo a non aderire a queste richieste perché non mi piacevo, o forse perché la prima volta ho donato senza riserve il mio corpo a una persona che non mi piaceva, cercando di soddisfare le sue brame, senza sentire nulla, nessun desiderio, nessun coinvolgimento; era tutto giocato sul non deludere le aspettative, perché questo mi avrebbe restituito l’identità smarrita, e la ricerca di quella identità o certezza di esistere, di essere bella, di meritare le attenzioni di un uomo, non lo sapevo, ma mi stava portando al massacro.
Esistono violenze però più sottili, che non si consumano sui corpi, anzi, si producono proprio quando i corpi si cercano, si desiderano. Anche qui vi è una hegeliana lotta per il reciproco riconoscimento, e si entra nella dialettica servo/padrone. Sottomettere il più debole è spontaneo, naturale, ma – come Hegel vuole – anche il più debole esercita un potere sul forte, si rende indispensabile, instillando in lui una dipendenza. Probabilmente la dipendenza è inscindibile dall’amore: non ho mai creduto alla favola dell’amore buono, scevro da possesso e gelosia, dove ciascuno rispetta l’autonomia dell’altro. Può darsi che esista, ma a me non è mai capitato.Violenza e amore sono terribilmente invischiate. L’abuso psicologico si esercita sulla fragilità dell’altro talvolta persino a fin di bene.
Ciò con cui dovremmo iniziare a fare i conti è la nostra responsabilità. Io ho imparato molte cose quando ho smesso di accusare gli altri di essere narcisisti manipolatori e mi sono chiesta perché io facessi entrare nella mia vita, cercassi e bramassi solo persone di questo tipo. Ho trovato risposta nella mia fame di attenzioni, nella mia insicurezza ontologica, nel desiderio di essere riconosciuta. Quando iniziamo a guardarci dentro e smettiamo di buttare tutto fuori, additando un carnefice, molte cose cambiano, decadono le condizioni stesse per l’esercizio dell’abuso.
Ilaria Palomba