Speciale contro la violenza di genere: Patrizia Maltese

In occasione del 25 novembre, Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le Donne, la redazione di Laboratori Poesia sospende il programma dell’intera settimana e dedica, ogni giorno, lo spazio delle pubblicazioni a riflessioni e interviste. Molti gli amici che hanno risposto al nostro appello. Oggi è la volta della giornalista Patrizia Maltese, intervistata da Erica Donzella.

La Redazione

 

ED: Patrizia Maltese è una giornalista e scrittrice. Tra le sue pubblicazioni vi è un libro che tratta la violenza sulle donne, scritto a quattro mani con Roberta Fuschi (anche lei giornalista): Violenza degenere, pubblicato da Villaggio Maori Edizioni nel 2015. Ho avuto uno scambio di battute con lei, davanti a un caffè; su un tema che non dovrebbe essere ricordato soltanto una volta l’anno e in occasione di date ufficiali, ma che è terreno di dibattito per chi si occupa, come lei, di raccontare vicende relative alla violenza di genere ogni giorno.

Sedute attorno al tavolo di una cucina, Patrizia fa un resoconto chiaro e puntuale su quella che è la narrazione attuale rispetto “allo stato delle cose”.

PM: Lo stato attuale delle cose è che mi pare che siamo assolutamente fermi. Perché sono anni che diciamo che viene uccisa una donna ogni tre giorni e continuiamo a ripeterlo, il che vuol dire che qualcosa non sta funzionando, secondo me. C’è da dire che, partendo dall’assunto che l’unico strumento utile rimane la formazione, non si fa una formazione a tappeto sulla comunicazione, prevista dalla Convenzione di Istanbul del 2011. La situazione è impantanata. Una formazione non soltanto sulla comunicazione, ma anche allargata a tutti gli agenti coinvolti, che siano forza dell’ordine, assistenti sociali, giornalisti e giornaliste. Uno dei problemi di base rimane che qualcuno è convinto fortemente che il femminicidio non esiste, negando i dati che invece confermano uno scenario ben più grave.

Ti faccio un esempio sul perché i corsi di formazione sono utili. Un paio di anni fa si discusse della notizia di un giovane carabiniere che, durante una chiamata d’urgenza, comprese la richiesta di aiuto in codice di una donna che stava “tentando di ordinare una pizza”. Ecco, se quel carabiniere non avesse partecipato a un corso di formazione sulla violenza domestica e di genere non avrebbe mai saputo decodificare la richiesta d’aiuto e quindi il pericolo a cui era sottoposta quella donna. L’ha salvata, nei fatti. A monte c’è il discorso del patriarcato, cioè delle famiglie: quando una donna viene maltratta dal marito le viene ancora detto “chissà che cosa hai fatto”. Non possiamo generalizzare certamente quando puntiamo il dito contro le famiglie, ma è anche vero che ci sono nuclei di persone che non hanno gli strumenti culturali per capire alcuni fenomeni: come dovrebbero riconoscere cosa è giusto e cosa è sbagliato se non sono formate in tal senso? A fare un discorso sul patriarcato o sulla violenza in generale? Famiglie costituite da persone che non hanno studiato o che sono cresciute con le tv di massa, e quindi con un sistema di valori visivi e narrativi che non hanno fatto altro che trasmettere il messaggio di una mercificazione della donna, da usare come meglio si crede, e poi da buttare e quindi eventualmente e, in casi estremi, anche da uccidere. Quelle generazioni hanno metabolizzato questa narrazione producendo quello che adesso è purtroppo un modello patriarcale che è difficile da stanare. Il femmincidio, o persino il delitto d’onore, viene giustificato in qualche modo e la comunicazione non si ferma a riflettere sulle parole che usa, perché quando tu dici “è stato un raptus” io dico “no: non può essere un raptus un femminicidio premeditato con un’arma che hai in tasca e che ti porti da casa”. E non si usa la parola femminicidio: l’esempio è proprio di questi giorni. Sono stati commessi tre femminicidi a Roma e li chiamano “omicidi”, tra l’altro senza un nome per le vittime, ma indicandole solo come “una cinese e due trans”. Ed è scandaloso che si dica anche che una donna “se la vada a cercare” o si cerchi di capire come era vestita nel momento in cui è stata uccisa. Dovremmo essere proprio noi a dire che non è un raptus è che uccidere una donna è femminicidio.

Dal punto di vista delle istituzioni qualcosa sta cominciando a muoversi, ma siamo ancora in alto mare. C’è una mentalità che è difficile da scardinare. Noi giornalisti però abbiamo un ruolo educativo importantissimo, al pari della scuola. Noi abbiamo una responsabilità nei confronti del Paese.

 

ED: In questa conversazione davanti a un caffè c’è dentro anche tanta consapevolezza rispetto a un’evidenza: siamo due donne di generazioni diverse accomunate dalla rabbia nei confronti di un sistema che tenta in ogni modo a mutarci e che proviamo, coi nostri strumenti di comunicazione, a combattere con la verità e la sorellanza. Mentre Patrizia si alza dalla sedia per andare via, penso che ci sia un gran bisogno di usare le parole giuste per difendere corpi e vite, non fosse altro per garantire un futuro più sicuro a chi lo racconterà dopo di noi.

 
 
 
 
foto di copertina di Andrea Maccarrone