C’è un fatto, un’evidenza che questo libro ci insegna: una madre resta tale anche dopo la perdita del proprio figlio. In Ciò che resta della notte (Interno Poesia, 2023), Anna Paradisi dà voce all’assenza straziante del proprio figlio, Samuele, e al tempo stesso lo rende immortale con la sua poesia colma di fede e speranza. Un’altra evidenza, la meno scontata: la fede non annulla la portata di una tragedia, ma permette quanto meno di inginocchiarsi e pregare. La poesia di Paradisi è preghiera.
Il libro è impreziosito dalla prefazione di Isabella Leardini, che osserva: «I primi versi di questo libro qualcuno potrebbe dire che sono presagio e profezia». Infatti, dalla prima poesia emergono queste parole: «E anche adesso che non sei / mi viene quasi da chiamarti / quando mi accarezzo la pancia / come se ci fossero già le tue mani / da afferrare, il tuo respiro da aspettare». In aggiunta le parole profetiche successive: «Tu non sarai mai carne».
La realtà non solo accompagna la donna nel proprio lutto, ma lo esaspera. Tutto attorno a lei assume un volto nuovo e viene ricoperto dal dramma esistenziale: «Le altre donne i figli li portano al mare / si lamentano delle notti passate in piedi, non sanno / che anche chi ha i seni vuoti non dorme / e chiama nomi che non rispondono». Quella di Paradisi è una mancanza che interessa tutto: il corpo spezzato come da una voragine, e il mondo esterno anch’esso svuotato (apparentemente) di senso.
Allo stesso tempo, la poetessa ci permette di fare insieme a lei un passo ulteriore non rimanendo in superficie. In alcuni versi riflette sulla frase a lei (e a molte altre donne, con le quali è come se dialogasse) rivolta certamente più di una volta: «ne avrai altri». È a partire da questa tremenda affermazione che si svela, ancora una volta, la voce di Anna Paradisi nella sua drammatica speranza e lucidissimo amore: «come potesse trattarsi / di sostituzione, come cambiare / le lenzuola / dopo aver fatto l’amore». Il lettore percepisce sì il senso della perdita, ma anche l’idea che Samuele resti e viva altrove. Che sia morto e al tempo stesso nato.
È in quella che si può definire la seconda parte di questa raccolta poetica che vediamo cambiare lo sguardo dell’autrice. Ad aprire questo primo ‘giro di boa’ poetico, troviamo dei versi particolarmente evocativi di Sylvia Plath: «Non riesco a non sorridere per ciò che so. / Foglie e petali mi assistono. Sono pronta». È commovente vedere verificata quella speranza prima soltanto immaginata. Se prima era solo notte, pura oscurità, adesso si comincia ad intravvedere l’alba. A giungere è la presenza nuova, innovativa del figlio, prima di tutto il suo nome. Dopo il lutto era impossibile da pronunciare, ma adesso Paradisi dice con enorme certezza: «dimenticherò tutto / tranne il tuo nome». Questi versi possiamo leggerli come una reazione al «ne avrai altri» precedente. Samuele, il suo nome, come un tutt’uno insostituibili, impossibili da rimpiazzare.
Questa raccolta poetica è piena di rimandi alla natura, in particolare agli alberi, alle piante e ai loro frutti. Nella seconda parte del libro è possibile notare come l’accezione di pianta e frutto abbia finalmente acquistato una valenza positiva, vicina appunto alla primavera, alla rinascita e alla speranza di quest’ultima: «Dio giocava con i tuoi capelli […], diceva / che dovevo aspettarti come si aspettano / i primi fiori dell’albicocco, o magari / la fine dell’estate».
Ma la vicenda esistenziale di ogni essere umano non è mai perfettamente lineare, né un lutto come questo può essere superato senza lasciare tracce di nostalgia – «un albero / di quelli che si vedono dal treno / soli in mezzo ai campi / che non fanno ombra a nessuno». L’autrice continua a paragonarsi alle piante; parti di sé diventano radici, frutti, terra. E da queste parole comprendiamo ancora di più l’alienazione che deriva dal vedere le altre madri coi loro figli da proteggere e, per citare i versi precedenti, a cui fare ombra.
La terra torna nella poesia di apertura alla terza e ultima sezione. Antonia Pozzi scriveva: «che le cose oscure della terra / non abbiamo potere / altro – su me, / che quello di martelli lievi / a scandere / sulla nudità cerula dell’anima / solo / il tuo nome». Questi martelli lievi li sentiamo dalla voce, ancora nuova, di Anna Paradisi, che affronta la vita e la sua quotidianità usando quasi in tutti i suoi componimenti la metafora del pane, dell’impastare. È interessante come questo possa farci venire in mente, in modo immediato, l’atto di creare. È la fase conclusiva (forse?) di un lavoro interiore più che complesso. Questo percorso emerge perfettamente da questi primi versi: «Ho imparato a impastare piano / a guardare negli occhi il buio / ad aspettare nella città del pane / una notte che sappia chiamarmi». Tutto richiama alla creazione, e non a caso la poetessa parla del pane: alimento che richiede una lunga lievitazione, accompagnata da calma, amore e pazienza.
Entrano in campo due soggetti prima impensabili e quasi assenti: una figlia immaginaria e il marito, che permettono all’autrice uno sguardo mendicante e di fede alla propria mancanza. Quando Paradisi, rivolgendosi a questa figlia, scrive «volevo chiederle scusa per i giorni / in cui non saprò amare abbastanza” è sì consapevole della sua mancanza, della propria fragilità. La sua è una supplica fattasi preghiera. Nella figura di questa figlia troviamo anche materializzato un nuovo coraggio: prima esistevano solo la fatica e la necessità di pronunciare il nome del figlio, adesso si è invece fatto strada il coraggio per rivolgersi ad un volto.
La mendicanza dell’amore è un elemento molto presente in queste ultime poesie, e il lettore lo vede benissimo nella poesia successiva, quando rivolgendosi al marito scrive: «Quando tutte le teste si chinano / io aspetto un tuo bacio / a dirmi che posso alzarmi ancora in piedi». L’amore sa risanare e ridonare qualcosa di prima, ora perduto. È l’identità della moglie ad avere questo privilegio: «Mi ricordo del mio nome / solo se lo dici tu». È come se, fino ad adesso, la madre sia stata al centro della battaglia, l’unica ad essere guardata, attaccata. Mentre ora, grazie allo sguardo e alla presenza del marito, di nuovo al centro, è tornata la donna.
Il marito di Anna in questo libro assume anche una valenza biblica perché paragonato al profeta Elia. In esergo all’omonima poesia Elia, troviamo diversi passaggi dal libro dei Re, dalla Bibbia. L’inizio è particolarmente evocativo e continua il tema della creazione del pane: «In mano ho soltanto un pugno di farina / ma tu hai la fede del pane / la cura dell’impastare». Ed ecco che la salvezza arriva guardando le mani, guardando gli atti di un profeta, guardando un marito che ha il coraggio di intraprendere il viaggio verso la salvezza. Si conclude la poesia, e con questi versi giunge a una conclusione l’intero libro, con i versi: «La salvezza questa notte / è il sussurro leggero dell’estate / il coraggio di andare verso l’acqua». L’acqua, un simbolo con molti significati: la fonte della vita, la fonte della salvezza, del battesimo e l’elemento fondamentale per generare un impasto.
Isabella Leardini, nella sua prefazione, usa spesso la parola «miracolo» che è proprio ciò a cui il lettore assiste. Un miracolo che, come un impasto, ha bisogno di tempo per poter lievitare ad assumere la forma giusta. Proprio il simbolo del pane, per concludere, ci può venire in aiuto per capire cosa veramente resta della notte. Questo simbolo, così tanto protagonista e usato in maniera profetica, è un alimento che ha bisogno della notte per essere generato. Le prime pagnotte, i primi tozzi di pane, vengono tolti dal forno alle prime luci del mattino. Ed è forse questo quello che resta della notte: una nuova generazione, una nuova speranza, un nuovo sguardo che possa alimentare la vita a venire.
Chi leggerà questo libro sarà testimone di un’umanità al tempo stesso unica e universale, perché ogni essere umano vive a modo suo, ma Anna Paradisi ha inconsapevolmente generato un percorso, una traccia di vita da poter seguire.
Caterina Golia
E quando dicono il nome di un’altra
e la chiamano madre
è un lento cadere di capelli
trovarmi senza nulla
che sappia farmi donna.
Chi lo dice non sa
quanto pesano le braccia in sala parto
quando un treno manca la corsa
e resti a guardare le macchine
e nessuno ti raccoglie.
Tu non hai mai avuto
paura del buio, e vai in discesa
fino al centro della mia pancia
fino ad incontrare la morte
che mi porto addosso.
Da lì sembro quasi un albero
di quelli che si vedono dal treno
soli in mezzo ai campi
che non fanno ombra a nessuno.
Se tutto dovesse concludersi per me
nell’essere madre
di bambini sognati e di uno
piccolo, nato senza respiro, allora
le rose saranno le mie figlie
e gli argini dei fiumi e l’odore
della pioggia di maggio, le ginestre
sulle rotonde a dire
che anche un cespuglio può essere giallo
dentro una città e anche tutti i nomi
che non dirò mai in qualche modo
sono esistiti.