In occasione del 25 novembre, Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le Donne, la redazione di Laboratori Poesia sospende la programmazione dell’intera settimana e dedica, ogni giorno, lo spazio delle pubblicazioni a riflessioni e interviste. Molti gli amici poeti che hanno risposto al nostro appello. Oggi pubblichiamo un commento di Franco Buffoni.
La Redazione
I primi studi sul sessismo linguistico risalgono agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, quando negli Stati Uniti ci si comincia a interrogare sul diverso modo di rappresentare il maschile e il femminile attraverso il linguaggio, al quale viene riconosciuto un ruolo fondamentale nella costruzione della realtà. In estrema sintesi, da allora si diffonde l’idea che gli stereotipi di genere si tramandano attraverso usi linguistici, che possono essere modificati al fine di diminuire la discriminazione della donna e, in generale, di garantire le pari opportunità dei cittadini.
Dopo tanti decenni trascorsi a elaborare studi e manuali, il problema della discriminazione linguistica dovrebbe essere risolto o quasi. Invece capita di avere delle incertezze, di non sapere bene come comportarci di fronte a dubbi anche banali, come per esempio l’uso del plurale maschile con valore neutro o l’intestazione di una lettera indirizzata a uomini e donne. Questo perché non si può pensare che esista una soluzione universale, internazionale, valida per ogni lingua e cultura. Tutto dipende dal contesto e ogni lingua ha i suoi problemi e le sue specifiche soluzioni.
Ancora oggi, ospitando in Italia la Chiesa cattolica, subiamo un’inevitabile interferenza culturale anche in ambito linguistico. In occasione dell’incontro tra Francesco Primo e l’Arcivescovo di Canterbury nel 2016, Sua Santità e Sua Grazia firmarono un documento congiunto nel quale appaiono due motivi di disaccordo tra le rispettive chiese: l’ordinazione sacerdotale delle donne e, cito dalla dichiarazione, alcune “questioni relative alla sessualità umana”. Il sacerdozio femminile e la vita sessuale delle persone sono dei tabù che la Chiesa anglicana ha superato da tempo, ma che rimangono centrali per la Chiesa cattolica. In Italia, è evidente, a una parità giuridica tra uomo e donna sancita per legge nel 1975 non corrisponde ancora una parità del costume. È evidente la non accettazione della parità da parte del maschio bianco eterosessuale. E dietro alla questione nominalistica si intersecano temi della vita di ogni giorno. Pare quasi ovvio, per esempio, che i bambini siano affidati alle madri in caso di separazione. E “Sposati e sii sottomessa” è il motto ancora oggi sottinteso a molti comportamenti quotidiani.
Dietro le questioni lessicali si celano problemi ben più concreti, che hanno conseguenze pratiche nella vita delle persone. In Il racconto dello sguardo acceso (Marcos y Marcos 2016) metto in luce alcuni vizi linguistici assai pericolosi eppure difficili da sradicare. Per esempio, quando parlando della morte di Pasolini si ricorre all’espressione “delitto omosessuale”. Come se fosse una questione tra omosessuali, appunto. E invece a uccidere gli omosessuali sono quasi sempre degli eterosessuali, che ci tengono tantissimo a dichiararsi tali. Si dovrebbe piuttosto dire “delitto omofobico”. In quel caso, poi, si trattò di un delitto politico, reso più cruento e mascherato dall’omofobia.
Le ragioni sono abbastanza evidenti. In un mondo dominato da maschi eterosessuali privilegiati, la richiesta di uno spazio di rappresentazione è un problema politico. Perché ci si pone contro il principio di autorità. E un sistema gerarchico e chiuso non vede di buon occhio i rovesciamenti di prospettiva. Perché coincidono con una perdita di potere. Le reazioni scomposte contro l’uso dello schwa lo dimostrano. Nessuno vuole cancellare né il maschile né il femminile. Soltanto inserire, in alcuni contesti, un segno Inclusivo. Ma qualcuno (privilegiato) ha sempre paura che gli venga tolta qualcosa. Lo schwa non critica solo il maschile sovraesteso, ma mette in discussione il binarismo di genere. Se confrontiamo i ruoli apicali occupati da maschi con la ridotta presenza femminile, comprendiamo il cortocircuito in cui si incappa, soprattutto a livello simbolico. È, volgarmente parlando, l’ancien régime che ha paura di morire. Perché sa di scivolare verso l’irrilevanza. Se non altro per questioni anagrafiche. Ma attenzione: la reazione è sempre in agguato, magari sub specie di una signora bionda che riesce a diventare Presidente del Consiglio dei Ministri, imbarcando al governo il peggio della cultura sessista.
Franco Buffoni