Speciale contro la violenza di genere: Olga Cirillo


 

In occasione del 25 novembre, Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le Donne, la redazione di Laboratori Poesia sospende la programmazione dell’intera settimana e dedica, ogni giorno, lo spazio delle pubblicazioni a riflessioni e interviste. Molti gli amici poeti che hanno risposto al nostro appello. E anche la redazione. Oggi è la volta della nostra redattrice Olga Cirillo con un commento e una traduzione da Ovidio.

La Redazione

 
 

Sono questi i tempi della Cancel Culture; tempi in cui al mondo classico si guarda con occhi nuovi, talvolta inquietanti. Perché, come suggerisce l’avvincente titolo di un libro pubblicato di recente, quel mondo sembra fatto di Tutte storie di maschi bianchi morti (A. Borgna, Laterza 2022). Il titolo provocatorio aiuta tutti noi, lettori moderni, a interrogarci, una volta di più, sulla consistenza e la validità di giudizi sommari e preconcetti che così poco offrono alla sacra esigenza del dubbio.

Dunque, in questo scorcio di novembre, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, nei giorni in cui va in onda il grande spettacolo di un mondo senza donne, quale quello che fa da sfondo e sede dei Mondiali di calcio del Qatar 2022, ho pensato di far traballare tante diffuse certezze, proponendo la mia traduzione di un antico testo latino, risalente alla fine del I secolo a. C.

I versi sono firmati da Ovidio, straordinario poeta di età augustea, costantemente in bilico tra elegia ed epica, tra consenso e dissenso, tra potere imperiale e provocazione libertina.

Un uomo qualunque ricorda e racconta. Si condanna e si assolve. Cerca perdono e si interroga su di sé, sulla sua rabbia, sulle leggi e sulle ragioni e le reazioni della sua donna.

In una parola, sulla violenza di genere.

Olga Cirillo

 
 
 
 
Ovidio, amores I 7
 
Legami le mani, si sono meritate le manette,
almeno finché non mi sia passata questa furia, se mi sei amico.
Un raptus mi ha fatto alzare le mani sulla mia donna,
e ora piange, la mia ragazza, colpita da questa mano impazzita.
 
A quel punto avrei potuto persino picchiare i miei genitori,
o colpire come un selvaggio il mio stesso dio.
Che c’è di strano?
Se persino Aiace, signore dall’invincibile scudo,
si avventò contro i suoi animali, sorpresi nei campi.
E Oreste, maledetto, che per vendicare suo padre,
diventò l’assassino della madre,
lui che ebbe il coraggio di armare la vendetta contro le più sacre dee?
 
E io, io ho avuto il coraggio di strapparle quei capelli, così perfetti?
Stava bene anche così, con i capelli in disordine.
Era talmente bella:
Bella come Atalanta,
quando andava a caccia di animali feroci sul Menalo,
Bella come la ragazza di Cnosso, in lacrime,
mentre i venti impetuosi le portavano via le vele
e le promesse del suo amore bugiardo.
Bella come Cassandra,
con i capelli fasciati dalle sacre bende,
quando si inginocchiò
ai tuoi piedi nel tempio, Minerva.
 
Chi non mi avrebbe chiamato Pazzo?
Chi non mi avrebbe chiamato Barbaro?
Lei, niente. La lingua rimase muta, paralizzata dalla paura.
Ma a rimproverarmi fu il suo volto silenzioso;
la sua tacita bocca,
le sue lacrime
hanno fatto di me
il colpevole.
 
Mi si fossero staccate le mani dalle braccia,
avrei fatto certo a meno di una parte di me.
Contro di me ho speso la mia forza.
Sono stato forte a condannarmi da solo.
Cosa avrei dovuto fare di voi?
Voi, serve di sangue, di violenza?
Mani del sacrilegio, subìte una giusta prigionia.
 
Se avessi colpito anche l’ultimo dei cittadini, probabilmente sarei stato punito.
La legge è dalla mia parte, invece, se picchio la mia donna?
 
Diomede lasciò una terribile testimonianza del suo crimine.
Fu il primo a colpire una dea; il secondo sono io.
Ma lui è meno colpevole di me.
Io ho picchiato quella che dicevo di amare…
Lui fu crudele, sì, ma contro la sua nemica.

E ora vai, vai, vincitore, a costruire il tuo trionfo,
cingi d’alloro la tua chioma, porgi i tuoi voti a dio,
e tutta la folla di quelli che ti acclamano, esulti:
Evviva, il glorioso eroe ha trionfato su una ragazza”.
Lei, prigioniera, avanzi nel tuo corteo con i capelli in disordine,
tutta pallida, per quanto lo consentano le sue guance,
ancora in fiamme.
 
Sarebbe stato certo meglio se livide fossero state le sue labbra
a forza di baci, se il collo portasse ancora il segno
del tenero mordersi.
Infine, se pure dovevo sfogarmi con la furia di un torrente impetuoso
e una rabbia cieca doveva farmi suo prigioniero,
non sarebbe bastato che urlassi contro di lei, spaventata,
e che le tuonassi contro spaventose minacce?
O strapparle squallidamente la veste dal petto.
Per il resto… la cintura l’avrebbe aiutata.
Invece le ho tirato i capelli dalla fronte,
Senza fare una piega, le ho conficcato le unghie nelle guance tenere,
Lei è rimasta ferma, stordita, il volto pallido, esangue,
come un blocco di marmo di Paro;
esanime il corpo, senza vita le membra: così la vidi,
come quando il vento scuote le cime dei pioppi,
come quando la canna sottile si agita al soffio dello zefiro
e quando al dolce spirare del vento l’acqua si increspa,
le lacrime, a lungo sospese, inondarono le guance,
come l’acqua che scorre da neve caduta.
Allora per la prima volta ho iniziato a sentire la mia colpa:
erano sangue le lacrime che lei versava, erano il mio sangue.
Tre volte, allora, mi lasciai cadere ai suoi piedi, supplicandola.
Tre volte, terrorizzata, le mie mani le respinse.
 
Ma tu non trattenerti e affonda le unghie nel mio volto,
la vendetta ti farà sentire meno dolore,
non risparmiarmi i capelli, né gli occhi.
La rabbia aiuta anche le mani più insicure.
Sistemati i capelli,
e non sopravvivano a lungo le tracce tristi del mio delitto.
 
 
Traduzione di Olga Cirillo