Speciale contro la violenza di genere: Felicia Buonomo


 

In occasione del 25 novembre, Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le Donne, la redazione di Laboratori Poesia sospende il programma dell’intera settimana e dedica, ogni giorno, lo spazio delle pubblicazioni a riflessioni e interviste. Molti gli amici poeti che hanno risposto al nostro appello. La prima è Felicia Buonomo, intervistata da Dario Talarico.

La Redazione

 
 

DT: Sul tema della violenza di genere e delle disfunzionalità relazionali hai avuto diverse esperienze in campo giornalistico, poi tradotte in ambito letterario, che a mio avviso hanno il merito di non limitarsi alla denuncia, tentandone piuttosto uno scavo. Le tue due ultime pubblicazioni, Cara catastrofe (Miraggi, 2020) e Sangue corrotto (Interno Libri, 2021), già suggeriscono fin dai titoli due spunti fertili per aprire la discussione. Che valore assume, nella vittima come nel carnefice, il coabitare idiosincrasico di un doppio impulso ad affezionarsi, dipendere e legarsi a una catastrofe che soffoca e intossica, causando sofferenza a sé o all’altro? E ancora, quanto di ciò che accade è frutto di ragioni contingenti, e quanto invece è figlio di una “corruzione” ereditaria, che sia di tipo genetico, o che si tratti di un retaggio disfunzionale di tipo familiare-educativo-culturale al quale veniamo sottoposti nella vita di tutti i giorni, dall’infanzia alla maturità?

FB: Parto da una premessa: accettando questo nostro dialogo sono stata animata dall’obiettivo di contribuire a far conoscere le dinamiche legate alla violenza di genere, permeate da numerosi e fastidiosi – spesso anche dolorosi – stereotipi, ma che molte delle cose che dirò, meglio potrebbero essere spiegate da professionisti della psicoterapia, specializzati nella trattazione di pazienti che vivono o hanno vissuto rapporti violenti; il mio è solo un contributo, ma non specialistico. Nei rapporti disfunzionali esiste sempre una codipendenza, dove un partner (nel caso di specie, la vittima) mostra una dipendenza affettiva e l’altro (il cosiddetto carnefice) è spesso caratterizzato da una personalità narcisistica patologica. È in questo contesto che ci si lega alla “catastrofe che soffoca e intossica”. Ma non è una dinamica che esiste di per sé, per quanto ognuna delle parti abbia personali tendenze antecedenti al nascere del rapporto affettivo. Il processo di codipendenza si sviluppa a seguito di una manipolazione di una parte verso l’altra: il manipolatore carnefice porta la vittima a una condizione di assoggettamento psicologico, per cui la seconda comincia a vedersi con gli occhi del proprio maltrattante. E questo è il primo stereotipo che aleggia intorno al tema della violenza. Spesso si confonde il conflitto (che pure all’interno delle coppie può esistere) con la violenza. Il discrimine sta in quell’assoggettamento psicologico di una parte verso l’altra, che agisce – quest’ultima – sempre con lo scopo di renderla dipendente, di mettere alla prova la sua “resistenza d’amore”. Per il carnefice è un approvvigionamento, per la vittima è un bisogno di affrancarsi dall’immagine che le viene cucita addosso, ovvero di persona in grado di determinare la rabbia di cui è destinataria. E questo risponde parzialmente alla seconda parte della domanda: sicuramente c’è una componente di contingenza. Ma non è la sola. Esiste anche quella corruzione ereditaria di cui tu parli, sicuramente non di tipo genetico, ma frutto di un retaggio familiare-educativo-culturale, per cui la figura della donna viene vista ed educata a “sopportare”. La figura della donna è ancora ancorata all’idea che subire alcune oppressioni faccia parte del suo ruolo e che porre fine ad un rapporto generi un’onta. Sono estremizzazioni, ma assolutamente verosimili. Inoltre c’è un pregiudizio innato verso la figura femminile, considerata ancora come tentatrice o capace di raggiungere successi solo se sottoposta al volere di un uomo (e questo succede, se ci pensate anche fuori dal contesto relazionale, nei rapporti di lavoro per eccellenza). Ed è da qui che nasce la cosiddetta vergogna che la vittima prova nel momento in cui si rende conto di essere vittima di violenza, pur rinnegandolo; è il cosiddetto senso di colpa della vittima, che porta alla chiusura verso l’esterno, per paura di essere “scoperti”, di sentirsi responsabili di ciò che si vive, considerando anche che la società tende spesso a colpevolizzare la vittima, praticando la cosiddetta vittimizzazione secondaria, per cui si sposta il baricentro dell’attenzione da chi agisce la violenza a chi la subisce. E questo, purtroppo, accade anche nelle aule dei tribunali, ed è il motivo per cui tante donne preferiscono (ed è loro assoluto diritto) non denunciare. Considerate le sentenze che affrancano gli autori di violenza sessuale, solo perché la donna è stata considerata “colpevole” di essere vestita in un determinato modo o di essere in stato di alterazione da alcol o droga, quindi di aver incentivato la violenza subita. E ancora: pensate a quante donne si sono viste, dopo aver denunciato i propri partner violenti, private dell’affidamento dei figli in sede processuale perché considerate delle madri alienanti, vedendosi affidare i figli al padre violento.

 

DT: Le figure di vittima e carnefice sono sempre nettamente polarizzate o, come nei romanzi migliori, i ruoli e le responsabilità possono mescolarsi in tonalità di grigi non facilmente districabili?

FB: Questa è una domanda estremamente difficile. È evidente che le responsabilità possano mescolarsi. Ma rischiamo anche qui di confondere i concetti. La responsabilità è un concetto diverso dalla colpa. La vittima è portata a non separarli. Sono tanti i motivi per cui non si interrompe una relazione disfunzionale e violenta. Può essere la paura, ad esempio, o la speranza o per il senso di colpa. Bisogna far presente che il sentimento che anima la vittima non è mai quello della vendetta verso colui che la maltratta. Al contrario, il desiderio è di sanare, tornare a vivere quel principe azzurro che si è incontrati agli esordi del rapporto e che ciclicamente ritorna. Si parla infatti di ciclo della violenza, composto da tensione – violenza vera e propria – false riappacificazioni. Sono queste ultime che portano il soggetto maltrattato a ricominciare da capo; e questo può durare anche anni. Riassumendo: le figure, dunque, sono nettamente polarizzate nelle dinamiche psico-comportamentali; se si parla di responsabilità, invece, alcuni aspetti possono mescolarsi; ma sarebbe sempre il caso di maneggiare con cura il concetto di colpa (onde evitare la vittimizzazione secondaria di cui si parlava poco fa).

 

DT: In una società come la nostra che non pratica bene l’equilibrismo, si passa con disinvoltura dal non parlare affatto di alcuni argomenti, al parlarne tutti e male, fino a svuotarli. A proposito di bombardamenti culturali, sempre più spesso mi capita di pensare alla pornografia in relazione ai temi e alle modalità in voga del politicamente corretto e della sua relativa retorica. Ma la strategia del purché-se-ne-parli o l’approccio perbenistico-pubblicitario quanto possono giovare ad argomenti così profondi e articolati? In altre parole, questa sovraesposizione anodina della questione rischia, a mio avviso, di avere lo stesso effetto che il porno ha nei confronti dell’eros. Stando alla tua esperienza e alle tue competenze, il politicamente corretto non può finire per disinnescare e appiattire le criticità che sostiene di volere evidenziare, anziché approfondirle ed eviscerarle, per meglio comprenderle e risolverle?

FB: Mi sento di appoggiare le tue perplessità riguardo il politicamente corretto e il conseguente svuotamento di significato relativamente alle questioni sociali, compresa quella della violenza di genere. È anche vero, tuttavia, che chi conosce bene il tema e/o lo tratta per ragioni professionali o di impegno sociale o personali, sa bene di cosa parla e se anche percorre il terreno del politicamente corretto, lo fa solo come ausilio alla trattazione delle proprie ragioni di divulgazione. Diverso è il volerne parlare a tutti i costi, per sentirsi buoni e solidali, senza magari capire davvero che spesso si arreca danno a quelle stesse ragioni. Prendiamo anche la mia stessa categoria professionale, quella del giornalismo. Tanto per cominciare spesso noi giornalisti ne parliamo solo quando si consuma l’evento di cronaca più drammatico, quello del femminicidio. E anche in questo caso, gli errori che si commettono sono numerosi, fino all’estremo di “giustificare”, seppur inconsapevolmente o per “ignoranza” sul tema, il gesto compiuto. Si pensi all’utilizzo di parole quali “raptus”, ignorando che il femminicidio è l’approdo di una dinamica di violenza che si consuma nel tempo, non certo un gesto inconsapevole da parte di un soggetto che improvvisamente perde la ragione; o “il gigante buono” ignorando che chi è violento con il proprio partner, non necessariamente lo è anche in altri contesti di socialità, anzi, se consideriamo la figura del narcisista covert, spesso lo stesso appare in pubblico come timido e gentile, estremamente affettuoso. Ma qui ci sarebbe da fare una trattazione a parte.

 

DT: Infine vorrei chiederti una riflessione sul linguaggio. È risaputo che non per tutti i popoli esistono parole per descrivere determinate cose, giacché la creazione di un vocabolo all’interno di una comunità, in un ben preciso contesto storico-geografico-antropologico, può nascere solo per rispondere a una esigenza specifica e relativa. Riguardo a diversi argomenti oggi sulla cresta dell’onda, come la questione di genere, si osserva invece un tentativo talvolta goffo o prepotente di attacco frontale a quello che è il linguaggio, esacerbandone o rinnegandone alcuni principi sintattico-lessicologici. È il caso di escamotage e neologismi non sempre particolarmente convincenti anzitutto perché, a mio avviso, non ancora somatizzati e assimilati dai tempi biblici dell’evoluzione linguistica. Penso piuttosto che il linguaggio, in un gioco reciproco di causa ed effetto, sia lo specchio della nostra civiltà e che risponda a esigenze profondamente radicate. Per la stessa ragione, non ritengo che sia sufficiente ad esempio far terminare una parola con un asterisco, per risolvere in un colpo solo tutti i divari e le sproporzioni esistenti nella nostra società fra uomini e donne. Anche perché un’operazione simile ignora o trascura quella dimensione fondamentale e fondativa del linguaggio, che è l’oralità e la sua praticabilità. In altri termini, credo che il linguaggio sia un sintomo, un punto di arrivo e non di partenza. È la fotografia di uno stato di cose e non un incipit, né una materia trasformabile arbitrariamente per iniziare a cambiare veramente qualcosa con credibilità. Qual è, invece, la tua opinione sull’uso del linguaggio? E cosa è fondamentale fare?

FB: Questa è una domanda molto interessante, che apre una riflessione che rischia di portare a considerazioni – in parte – che molti etichetteranno come impopolari. Il linguaggio ha la sua importanza, se consideriamo quanto si diceva poco fa riguardo gli “errori” che spesso vengono commessi anche dai mediatori della comunicazione. Su questo tengo il punto di attenzione estrema. Ugualmente sulla parola femminicidio. Spesso l’appunto che viene mosso è che si tratti di un omicidio, che non sarebbe necessario definirlo in modo diverso. E invece è più che necessario. L’omicidio è un delitto compiuto da un soggetto, magari verso una donna, per i motivi più disparati. Il femminicidio è un delitto che si compie verso la donna in quanto donna. Capirete anche voi che questo fa la differenza e che la terminologia è necessario che cambi e segua la semantica sottesa. Più in generale, nella trattazione della tematica della violenza, l’utilizzo delle parole deve seguire regole di attenzione e sensibilità, per evitare di incappare in quei dolorosi stereotipi di cui si diceva o, peggio, generare offese e sofferenze in soggetti già provati dal trauma. Se invece ci concentriamo sull’aspetto che tu hai sollevato, credo di poter abbracciare in parte la tua tesi. Credo – come sottolineavi – che, certo, “il linguaggio sia un sintomo, un punto di arrivo e non di partenza”, ma che comunque sia necessario arrivarci. Noi siamo pensieri, parole e azioni. Dunque: se si “parla bene”, si agirà bene di conseguenza.