Speciale contro la violenza di genere: Lucianna Argentino


 

In occasione del 25 novembre, Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le Donne, la redazione di Laboratori Poesia sospende il programma dell’intera settimana e dedica, ogni giorno, lo spazio delle pubblicazioni a riflessioni e interviste. Molti gli amici poeti che hanno risposto al nostro appello. Oggi è la volta di Lucianna Argentino, intervistata da Alessandro Canzian.

La Redazione

 
 

AC: Nel tuo La vita in dissolvenza tratti di una figura particolare e precisa, Valentina Cavalli, nella sezione “Gestazione dell’addio”. Raccontaci la storia di Valentina e del perché hai scritto di lei.

LA: In realtà non so esattamente come andarono le cose, so che Valentina fu violentata a Milano da due ragazzi italiani (un terzo pare facesse il palo) che picchiarono brutalmente il suo ragazzo e abusarono di lei. Quello che mi colpì della sua storia, ascoltata in un servizio al telegiornale, e che mi ha spinto a scriverne, è stato il fatto che fossero trascorsi sei anni dalla violenza subita al suicidio. È stato come se avessi sentito in me tutto il suo dolore sprofondato in una via senza uscita che non le ha permesso di risalire da quell’abisso che le aveva sconvolto la vita, il suo stesso volto. Ciò che accade alle vittime di abusi, in particolare di abusi sessuali, è di non essere in grado di ricostruire la propria immagine, di creare una nuova immagine di sé stesse. Non una maschera che copra il volto sfigurato, ma una riedificazione che inglobi anche il male subito. Quando Luca Benassi pubblicò alcuni stralci del poemetto/monologo su una rubrica che curava per la rivista Noi Donne mi scrisse, Valeria, la sorella di Valentina che tra le altre cose mi ringraziò anche perché non l’avevo contatta prima per chiederle magari dettagli che avrebbero suscitato la pruderie dei lettori. Ecco perché non so esattamente come andarono le cose perché a me interessava capire, interpretare, dare voce al doloroso percorso interiore che da quel tragico momento in poi l’aveva portata al suicidio. L’ho scritto infine perché volevo descrivere lo scempio che si compie nell’animo di una donna e non solo nel suo corpo, perché come poeta e come essere umano partecipo del dolore altrui e non temo di indagarlo anche se questo vuol dire fare i conti con il proprio dolore.

 

AC: Il dolore è la materia privilegiata della Poesia. Ma anche l’analisi critica, sociale. Cosa vede e fa, o può fare, un/a poeta oggi? Ha mai veramente avuto possibilità di fare qualcosa?

LA: La poesia di per sé è già un fare, un fare che a volte fa paura. Sappiamo di diversi poeti e poete uccisi per le loro poesie. Ciò vuol dire che la poesia un certo potere ce l’ha se non di cambiare il mondo di cambiarne la visione. Di cambiare le coscienze, direi di rafforzarle nel senso del bene, della verità, nel senso di un destino comune che dovrebbe renderci solidali gli uni con gli altri. La poesia può certamente lavorare nell’intimo di chi la ascolta, di chi la legge e quindi operare un cambiamento, accompagnare un cambiamento perché noi siamo esseri in cammino, in divenire e così anche la poesia non esaurisce il suo potere una volta fruita. Credo che i poeti oggi, come in ogni tempo, si pongano come pietra di inciampo al pensiero dominante, non solo minandone le fondamenta ma proponendo delle alternative, perché la poesia nasce da un processo creativo e ne avvia un altro nell’interlocutore. Quindi rispondo di sì, la poesia ha avuto, ha e continuerà ad avere la possibilità di fare qualcosa rimandandoci, e liberando da tutto ciò che lo soffoca, il senso pieno della nostra umanità e della ricchezza e della bellezza che di essa sono sostanza.

 

AC: Violenza di genere. La donna come simbolo di qualcosa di ben più ampio e che sembra radicato nell’essere umano: violenza contro l’altro, definizione di categorie che sono semplificazioni-pretesto per odiare qualcuno, per sentirsi qualcuno, violenza contro gli indifesi che siano bambini, anziani, disabili, omofobia, campagne che spesso alimentano ciò che dicono di voler contrastare, propaganda che limita la prospettiva per manipolare l’attenzione. La violenza di genere è una piaga che nel 2022 non ci aspetteremmo di avere ancora, ma che è coperta e sovrastata da un sistema contraddittorio, alienante, controproducente.

LA: È un problema mondiale. Non c’è lembo di terra del nostro meraviglioso e martoriato pianeta che non sia toccato dai problemi di violenza contro i più deboli, contro le minoranze e/o i così detti “diversi” di ogni genere e colore. È vero che non ci si aspetta nel 2022 di vivere questa piaga, come tante altre piaghe – la povertà, la fame, la disoccupazione, la droga ecc. ecc. Ma rimanendo alla violenza di genere non so proprio come se ne possa uscire se non con un altrettanto violento e drastico e radicale cambiamento di mentalità che a mio avviso deve partire dalle donne stesse. Quello che sta accadendo in Iran, dove tra l’altro alle donne è proibito scrivere poesie, ne è un esempio, ma è necessario che alle giovani donne che protestano si affianchino certo i loro mariti, figli, padri, fratelli, ma soprattutto le loro madri, le loro nonne. Perché spesso sono le donne le prime nemiche di sé stesse. Si pensi anche al recente omicidio qui in Italia di Saman Abbas da parte del padre con la complicità della madre. In passato, e in alcuni Paesi è così ancora oggi, le donne sono conniventi con i governi che le escludono dalla vita sociale, che ne limitano i diritti, e non dimentichiamo che nella polizia morale dell’Iran ci sono anche le donne. È difficile infatti scrostare dalla loro psiche una mentalità che le vuole inferiori all’uomo, millenni di sottomissione hanno operato una sorta di lavaggio del cervello che ha portato molte donne a credersi davvero inferiori e incapaci. Tanto c’è ancora da fare perché i pregiudizi e i preconcetti sono duri da estirpare e spesso le donne stesse non collaborano – contese tra il bisogno di autonomia e il bisogno d’amore – prestandosi ai giochi degli uomini che le vogliono ancora come begli oggetti da mostrare e da usare come credono. Penso anche a certe trasmissioni, a certe pubblicità e a proposito di queste ultime se da un lato qualcosa è migliorato dall’altro siamo ancora in alto mare. Mi riferisco in particolare alle pubblicità che mi capita di vedere nei canali dedicati ai bambini dove gli spot sui giocattoli seguono ancora i vecchi stereotipi, per non parlare di quelli nei testi scolastici che in parte ancora resistono pur essendoci tra gli autori delle donne.

Nel libro La vita in dissolvenza anche l’ultimo monologo “Aurora/Sara” parla di violenza. Ci sono una bambina, una madre, una nonna. C’è sì la violenza di un padre che con un calcio alla madre provoca la nascita prematura della bambina, ma c’è anche la violenza delle donne contro le donne, delle figlie contro le madri, delle madri contro le figlie perché è indubbio che il rapporto che c’è tra madre e figlia sia ambiguo e ambivalente, pieno di luci e di ombre, di detto e non detto. C’è questa madre che non riesce ad essere né figlia né madre che non riesce a guardare né la figlia né la madre perché non riesce a guardare sé stessa.

Tutto si gioca nel mancato riconoscimento di sé e quindi dell’altro. Di recente ho letto in un libro di ritratti di donne di Grazia Livi (in quello di Carla Lonzi) che la donna è dialogo e che per lei è importante esercitare questo dialogo con l’altro cosa che le permette di realizzare il suo senso dell’esistenza che consiste soprattutto nell’essere relazione. Credo, tuttavia, che sia così per tutti gli esseri umani, ma credo pure che le donne anche per via di quei cinquanta grammi di carne che portano nel ventre e che sono sempre e comunque “capacità” di accogliere l’altro e forte della sua differenza dall’uomo e per questo continuo lavorio interiore di dialogo possano dare l’avvio a una feconda rete di sane relazioni tra tutti gli esseri e le cose.