Un nuovo Catullo: tra testo e metatesto, la traduzione omofonica di Giovanni Greco

Continua la carrellata di recensioni, traduzioni e note che Laboratori Poesia ha deciso di dedicare ai libri presenti al Salone Internazionale del Libro di Torino. Dopo l’intervista ad Alessandro Canzian (Samuele Editore) di lancio dei “Progetti territoriali” di “Laboratori critici” (QUI), l’articolo di Mary Barbara Tolusso apparso sul “Nuovo Almanacco del Ramo d’Oro” (Serie speciale di “Laboratori critici”, Anno III, Speciale Num. 1), la traduzione da Charles Baudelaire a cura di Milo De Angelis e pubblicata nel libro I fiori del male di Charles Baudelaire (Mondadori, 2024), oggi proponiamo uno specialissimo Mito e Logos a cura di Olga Cirillo su E allora dammi mille baci e cento, curato da Giovanni Greco per Ponte alle Grazie Editore.

Il volume sarà presentato al Salone Internazionale del Libro di Torino venerdì 10 maggio alle ore 12:00, pad. OVAL stand del Friuli Venezia Giulia, a cura di Pordenonelegge.

La Redazione


 

“L’atto traduttivo si impone obbedienze e si concede disobbedienze, in modi sempre diversi. L’originale, pur conservando la sua identità storica, è destinato a moltiplicarsi; i metatesti assumono altrettante identità, in ciascuna delle quali il Testo è riconoscibile, vive e convive, mai più, dunque, in solitudine. La lettura neutra non esiste; il traduttore opera scelte, e non impantanarsi negli ibridismi dev’essere per lui un imperativo”. Così mi insegnava e mi ricorda tuttora uno dei miei maestri, C. Formicola, a proposito della traduzione di un testo poetico1.

Oggi l’opera di Catullo conosce un nuovo metatesto: E allora dammi mille baci e cento pubblicato per Ponte alle Grazie e in presentazione al SalTo 2024, per le cure di Giovanni Greco. Traduttore consolidato di classici in versi – Antigone di Sofocle (2013), Lisistrata di Aristofane (2016), Alcesti di Euripide (2019), Orestea di Eschilo (2022) – in questo caso Greco, autore e regista teatrale dal multiforme ingegno, docente di teatrologia dell’Accademia Nazionale di arte drammatica di Roma, Silvio D’Amico, si cimenta con uno dei più celebri poeti latini. Una lingua di partenza diversa e, soprattutto, un universo poetico, storico e letterario totalmente altro rispetto al repertorio tragico che ha sin qui costituito il suo privilegiato campo di battaglia. Conoscitore esperto di metri e ritmi, il Nostro ha voluto proporre ai lettori un’antologia di carmi catulliani: non tutto il liber, infatti, viene tradotto, ma una cospicua parte di esso, selezionata più sulla base di un criterio tematico che stilistico. In particolare, vengono tradotte 26 delle 60 nugae (1, 2, 3, 5,7,8,11,13,16, 21, 31, 32, 33, 36, 37, 38, 40, 41, 46, 47, 48, 49, 51, 52, 58, 60), che costituiscono l’elemento dominante del testo, sì da motivare la scelta del titolo, E allora dammi mille baci e cento, tratto dal v. 7 del c. 5, uno dei più celebri in assoluto; 14 dei 49 epigrammi (68, 70, 72, 73, 75, 79,85, 87,92, 93, 94, 101, 104, 107), nessuno dei carmina docta. A concludere il volume, una nota dell’A. che rende conto della propria relazione con il testo di Catullo, motivando talune particolari e talvolta audaci scelte nella resa di versi che il mondo poetico custodisce come propri in formule quasi cristallizzate dalla migliore tradizione filologica internazionale. Una versione catulliana agile, dalla copertina accattivante grazie ai colori pastello di un uccellino (gouache su carta, scuola indiana, XVII secolo), che suggerisce da subito al lettore un riferimento ai carmi 2 e 3.

Agile ma tutt’altro che semplice: a darne conferma la metrica restituita nella misura del dodecasillabo, inteso nella sua valenza di doppio senario, sempre perfetto nel caso della traduzione del trimetro giambico puro o dello scazonte – di molte delle nugae, quindi -, meno efficace, forse, rispetto alla resa del distico elegiaco – epigrammi-. Il lessico estremamente variegato, sofisticato, in alcuni casi, medio o umile, in altri, spesso volto a creare un effetto omofonico, privilegia, talvolta, il significante al significato allo scopo di conservare quel che del testo di Catullo rappresenta uno degli elementi fondamentali, ossia il perfetto adattarsi delle parole al metro del verso.

Giovanni Greco rinuncia, dunque, alla polimetria della poesia catulliana, ma cerca di conservarne la vivacità e l’arguzia del suono, ponendosi, da questo punto di vista, sulla scia della direzione indicata da Alessandro Fo (Gaio Valerio Catullo, Le Poesie, Einaudi 2018)2 che già in uno scritto preparatorio a quella che sarebbe stata la sua traduzione in metro barbaro si soffermava su uno dei rischi connessi alla sua imminente esperienza, facilmente riscontrabili nelle operazioni di chi lo aveva preceduto “[…] Per lo più non si riesce a salvare la ‘spiritosità’ di Catullo, che conosceva una enorme escursione dal giocosamente tenero (la serietà nugatoria), all’aiscrologico spinto, passando però per scelte singolari e eccentriche di singoli termini […] Prevale la pedanteria della resa del concetto, senza spuma espressiva a rendere in alcun modo la gioia di certe scelte verbali o tematiche. Anche nel registro volgare è sempre o fine, arguto, spiritoso e intelligente o calorosamente appassionato, sì che difficilmente il gesto poetico si esaurisce in una mera volgarità fine a se stessa”.3

Proprio in quest’ultima modalità, chi scrive ha potuto apprezzare il brio traduttivo di Greco, che scansa perfettamente il rischio di appiattimento e conserva vivacità e varietà soprattutto nella resa dei carmi scommatici. Forse perché, proprio in contesti di tal genere, il confine tra parola poetica e impoetica tende a perdersi, prevalendo, piuttosto, le evidenze di un lessico di settore – erotico o aiscrologico poco conta – che sconfina costantemente tra il tempo dell’allora e il nostro, pur modulato con risonanze non sempre coerenti e costanti.

c. 32

Fammi il piacere, mia dolce Ipsitilla,
tu mia dolcezza, tu mio godimento,
invitami da te nel pomeriggio.
E se mi inviti, aiutami così,
nessuno sbarri la porta all’ingresso,
e non ti venga voglia di andar fuori,
ma resta a casa e sii pronta per nove
chiavate l’una di seguito all’altra.
Ma se hai da fare, invitami all’istante:
ché ho pranzato e sto sazio a pancia all’aria,
e trafiggo la tunica e il mantello.

Nel c. 32, ad esempio, Greco preferisce rendere con l’immagine dell’invito quello che in Catullo è un ordine (Fammi il piacere…v. 1; invitami… v. 3), e al verso 10 lega iaceo, che è verbo tecnico del linguaggio scommatico, a supinus optando per un più tenue “sto a pancia all’aria”.

Addolciti rispetto alle intenzioni del testo di partenza, in qualche occasione, anche i carmi 37 e 41: nel primo caso, al v. 7, non … ausurum è reso con “non sappia” in modo tale che il “non osi” dell’originale non sia del tutto lontano, nonostante, temo, se ne perda, in efficacia, più di quello che inevitabilmente si dovrebbe, mentre al v.2 se è vero che i pileati fratres sono i Dioscùri, è anche vero che l’espressione così tradotta si priva della cifra allusiva all’abbigliamento di festa e di orgia (pill] eati ). Molto convincente, invece, al v. 16 “… da poco e bazzica-stradacce” per pusilli et semitarii moechi: immagine originale e creativa. Puella defututa del c. 41 – v.1 – reso con “puttanella strachiavata” attenua l’efficacia di defututa, significativo proprio perché combinato a puella, termine che indulge di solito a ben altre prospettive, mentre al v. 8: “guardarsi nello specchio” per qualis sit solet aes imaginosum attualizza l’immagine piuttosto che tradurla, in virtù di un criterio plausibile ma poco ricorrente nel metodo del Nostro. Qualche osservazione diffusa, prima di passare ai carmi cui di consueto il lettore di Catullo guarda immediatamente per misurare la virtù del traduttore.

c. 8

Povero Catullo smetti di impazzire,
quel che vedi andato sappilo perduto.
Ci furono un tempo giorni luminosi
quando tu volavi dove lei tirava,
5 da me amata quanto non sarà nessuna.
Lì quanti giochini tra voi si facevano,
che tu li volevi né lei non voleva:
furono davvero giorni luminosi.
Ora non li vuole, neanche tu… non puoi,
10 non seguir chi fugge, e non viver male,
ma con testa dura, tieni testa, oh dura.
Ciao ragazza bella, già Catullo dura,
non ti cercherà, non ti pregherà in vita;
ma tu soffrirai, non ti cercherà alcuno.
15 Guai a te, canaglia, che vita ti resta?
Chi ti abborderà? E chi ti vedrà bella?
Chi adesso amerai? Di chi mai sarai?
E chi bacerai? Di chi morderai il labbro?
Ma tu, che destino, tu Catullo oh dura.

Ai vv 11 e 13 del carme 8, in nota, Greco chiarisce la scelta di una resa omofonica e barbara, che, tuttavia, nel primo caso insiste su una doppia ripetizione che rischia di neutralizzare un evidente messaggio di sofferenza in un gioco di parole, efficace in quanto tale, ma straniante rispetto al contesto; nel secondo, al v. 13, “in vita”, esprime tutt’altro senso rispetto alla traduzione letterale pur indicata in nota, rinnegando il concetto di invita – “malvolentieri, contro voglia” – e traducendo quanto, invece, deriverebbe dallo spezzettamento della parola latina ( in-vita), con un pieno recupero del suono, deprivato del suo senso. E ancora nella direzione di una predilezione omofonica, numerosi sono i luoghi del testo in cui l’A. sperimenta soluzioni che possono convincere o meno, ma costituiscono immagini davvero interessanti, come nel caso del già citato c. 5, dove al v. 2 il gioco fonico “borborigmi … barbogi” esprime sarcasmo, e nel contempo riproduce, pur con un suono consonantico diverso, l’insistenza allitterante dell’originale – rumoresque senum seueriorum -, lì riecheggiata anche al verso seguente – omnes unius aestimemus assis-. Suggestivo il gioco fonico “posa il peso” del c. 31, 8, come indovinata l’espressione “il meglio avvocato di tutti” del c. 49, 7, in cui il ricorso al linguaggio colloquiale realizza un opportuno effetto ironico.

Convince, purtroppo, di meno l’omofonia che connota la resa del c. 85, il celeberrimo odi et amo: la prevalenza del piano dell’espressione sul contenuto, nel secondo elemento del distico, trasforma il tormento – excrucior – in un “cruccio”, sacrificando implacabilmente al suono il senso. E qualche perplessità il lettore affezionato ai versi catulliani ravviserà anche nella resa dei carmi 51 e 68, tra i più complessi e delicati del liber. Più precisamente, al v. 2 del c. 51 – il celebre canto in cui Catullo, a sua volta, traduce Saffo – si avverte la mancanza del si fas est originale, a meno che non lo si intenda reso nel “di più” iniziale, ma in tal modo nulla resterebbe dell’aura sacra di cui il poeta ha voluto circondare la sua strofa. Qualcosa, ancora, manca al v. 11 dove la perdita di gemina riferito a nocte produce un indebolimento di quella sensazione di cecità conseguente alla visione della coppia di amanti.

Nel carme 68, il primo dei componimenti in distici elegiaci, suscita sorpresa la scelta di tradurre il v. 13 con l’espressione “accogli chi affoga tra i flutti del fato”: visto, infatti, il valore di quis (= quibus) fluctibus che introduce una interrogativa indiretta, sarebbe forse stato opportuno conservare per accipe il significato di “Sappi” e non di “Accogli” ( es.: Sappi in quali…). E tuttavia, anche in tal caso, resta auspicabile il dubbio circa la legittimità di un meta-testo concettualmente autonomo rispetto alla base di partenza, ma concorde nella finalità dell’armonia dei suoni. Istanza che si rivela incoercibile quando il traduttore di poesia pensa a qualcosa da dire, piuttosto che da leggere senza labbra e senza voce, come, sembrerebbe a chi scrive, sarà accaduto a Giovanni Greco che proietta i versi in una circostanza performativa, non solo in virtù della loro stessa origine, ma anche in ossequio alla declinazione in cui il suo ruolo di docente di recitazione in versi potrebbe averlo flesso.

Lascio in chiusura un riflessione sulla resa di una delle parole chiave del liber (anzi, del libellus): il lepos da cui proprio Catullo ricava l’epiteto con cui presenta la sua opera ai lettori – lepidus-. Nel carme 1, prologo e annuncio dell’opera al pubblico, con presentazione del dedicatario e sponsor Cornelio Nepote, l’A. rende lepidus con “simpatico”, interpretando il concetto di “simpatia” nel senso di ironia, “che mette il lettore nella condizione di simpatizzare con l’autore”, o nel senso di immediata corrispondenza con lo stesso – empatia, quindi -, come spiega più diffusamente nella postfazione. Potrebbe, tuttavia, obiettarsi a questa lettura il fatto che lepidus libellus di c. 1, nelle intenzioni del poeta, sia, in realtà, il librino contenente le nugae, non l’intero Liber CCatulli Veronensis. Se, dunque, rispetto all’uso dell’epiteto in riferimento a tutto il libro, “simpatico” per lepidus sarebbe opportuno e convincente tanto in senso ironico quanto empatico, in relazione alla sezione 1-60, invece, parrebbe, forse, più congeniale un riferimento a quel lepos che lo stesso Greco traduce nel c. 16, 7 (leporem) con “spirito” e nel c. 32, 2 (lepores) con “godimento”. “Simpatico”, quindi, ma in quel suo senso immediato che rimanda all’arguzia, al motto di spirito, alla leggerezza intelligente.

Olga Cirillo

 

 
 
 
 

1# C. Formicola, Tradurre poesia! Tradurre poesia?, “BSL” 2015, pp. 92 – 111.

2# Alla traduzione di Alessandro Fo, in effetti, il testo di Greco ripota in più di un caso: c. 3, 5: “stessi occhi”; c. 3, 7: puella, bimba”; c. 3, 15: tam bellum, “il più bello”; c. 5, 3: “tutti insieme”; c. 5, 11: “per non saperne”; c. 8, 6 “tra voi”; c. 16, 2: “frocio”; c. 37, 6: “in fila”; c. 72, 2: “Lesbia, e che più di me neanche Giove volevi”.

3# A. Fo, Prime memorie di un traduttore da Catullo: problemi metrici, lessicali, di tono in https://antropologiamondoantico.wordpress.com/wp-content/uploads/2015/09/a-foprime-memorie-trad-cat-agosto-15.pdf