Transizioni, John Taylor (Edizioni Lyriks, 2021, traduzione di Marco Morello, postfazioni di Tommaso Di Dio e Franca Mancinelli, con alcune opere di Alekos Fassianos)
In un’intervista apparsa ne Il Quotidiano del Sud l’11 aprile 2021 Taylor afferma:
«La poesia cerca di preservare ciò che è rimasto prezioso dentro di noi, e ciò che tanti aspetti della vita contemporanea cercano di far scomparire. Questo è vero anche quando la poesia esplora ciò che è negativo negli esseri umani. In effetti, oggi uno dei compiti cruciali per i poeti è fare i conti con le negatività e vedere cosa si può trarre da esse. Come ho già accennato, gli interrogativi principali sono due: quale luce è nascosta nell’oscurità? Cosa ci può insegnare il buio?».
Definizione che, senza nulla togliere agli scritti di Tommaso Di Dio e Franca Mancinelli a chiusura di Transizioni, sigla con precisione millimetrica le due opere del libro: The athenian notebook (Il taccuino ateniese) e The sea at sète (Il mare a sète).
Di Taylor mi sono già occupato in questo spazio in relazione al libriccino edito da Pietre Vive Editore (collega che, come tutti i veri Editori volente o nolente, non di rado fa cose bellissime) dal titolo Oblò / Portholes (2019, traduzione di Marco Morello, illustrazioni di Caroline François-Rubino, postfazione di Franca Mancinelli – QUI – e ringrazio l’autore per averne inserito una citazione nel libro). In quel frangente la sua poesia mi appariva come un racconto della frammentazione del mondo interno, dell’osservatore stesso, che si relaziona alla propria frammentarietà misurando la distanza e l’esistenza stessa dell’oblò. L’io, l’ego, era presente come cardine necessario ma non ingombrante.
In questo Transizioni invece la fotografia inizialmente dimentica il fotografo, l’osservatore, per diventare linea essenziale di ciò che si vede. Ne Il taccuino ateniese ci si rivolge a una seconda persona singolare che diventa a un certo punto terza senza fratture, senza interruzioni.
Chino sul bordo
con una corda e un secchio
ma non sei tu
l’acqua profonda echeggia
oltre i papaveri rossi
un altro pozzo trabocca
di sporco
la tua perdita
è sepolta in profondità
*
i graffi rossi sulle sue guance
sono lacrime
rivoletti
che scorrono sulla pietra
attraverso la sabbia
per tornare al mare
Il passaggio è giustificato dal trait d’union che è la luce, o meglio la possibilità di osservare ciò che è evidente in quanto luminoso:
da dentro l’anfora
come nell’utero
guardi le stelle
[…]
il suo sandalo una una lucciola
sopra l’erba notturna
Evidenza che, come nell’intervista a Il Quotidiano del Sud viene esplicitato, trova il suo necessario controbilanciamento nel buio:
da dentro l’anfora
come nell’utero
guardi le stelle
il bimbo che le fissa
ignora il nero soffitto.
In questa prima parte del libro è quasi evidente, anche per oggetto d’osservazione (il titolo è taccuino ateniese), la relazione tra buio e pietra, tra nero e ciò che è sepolto:
questi convolvoli sono lune
in orbita sopra la pietra
[…]
la tua perdita
è sepolta in profondità
[…]
i graffi rossi sulle guance
sono lacrime
rivoletti
che scorrono sulla pietra
[…]
nient’altro
nessun altro
un nastro
dai capelli di qualcun’altra
brilla su questa pietra
Che rende quindi di particolare importanza il concetto di crepa, di ferita, ovvero della possibilità che la pietra ha di illuminare in maniera inattesa, salvifica? (ma questa è un’iperlettura data dal lettore, non dall’autore):
Quel che morde
dev’esser nutrito di nuovo
la tua ferita aperta
il serpente aspetta
[…]
questi convolvoli sono lune
in orbita sopra la pietra
o spuntano da una crepa
due futuri
[…]
i graffi rossi sulle sue guance
sono lacrime
Su tutto si può dire che questa prima parte analizza il rapporto tra pieno e vuoto, buio e luce, focalizzandosi su una forma da cui fuggire attraverso una delle più grandi potenzialità, probabilmente il motore primo dell’essere umano, quanto la sua rovina per abuso e incoscienza, che è il desiderio:
come un uccello
preso al laccio in una trappola
geometrica
conosci solo il desiderio
di volar via dalle forme
*
da una sagoma semicesellata
te ne sei andato
l’incompletezza
completa
*
colonne sorreggono ancora un tetto
per tutta la vita
sei andato in giro
immaginando il pieno
immaginando il vuoto
oggi questo sembra
pietra
aria
luminosa
piena
vuota
luce solare
Nella pulizia perfetta di un’immagine resa in pochi tratti la capacità, che è poesia, di osservare un elemento che diviene metafora di altro. Di un discorso ben più ampio, più europeo probabilmente.
*
Nella seconda sezione di Transizioni, in realtà una vera e propria seconda opera, il tono si fa evidentemente più intimista e il tu diventa un’interrogazione a se stesso che rimanda, per eco (il mare) a Oblò. Quel che ne Il taccuino ateniese aveva un respiro inclusivo e alto sulle cose del mondo, ne Il mare a sète acquisisce un tono più verticalmente scavato dentro di sé pur ripercorrendo le medesime tematiche. Questo perché se il poeta può e deve osservare con lucidità il mondo, è anche vero che non può totalmente distaccarsi da esso. E lo deve vivere su e dentro di sé, nel bene e nel male.
Come l’acqua sale
dalla terra scura
l’oscura sorgente
mentre l’altra oscurità
addensata lassù
s’attenua e diventa
cascata di luce
sorgere dal sole
*
apparizione
poi parvenza
se vi è differenza
lo scintillio
nell’aria
sull’acqua
così uniforme
così avvolto dalla luce nebbiosa
il mare qualcos’altro
in quest’ora senza vento
che cos’è
vicino e lontano
è sempre cos’è
e cosa non è
Il rapporto con la luce torna importante in maniera quasi autocitazionistica, in un continuo link alla sezione precedente che dimostra l’armonicità dell’opera, declinata in due prospettive differenti:
come un uccello
preso al laccio in una trappola
geometrica
Il taccuino ateniese
come la geometria brilla
deve poi svanire
Il mare a sète
i graffi rossi sulle sue guance
sono lacrime
rivoletti
che scorrono sulla pietra
attraverso la sabbia
per tornare al mare
Il taccuino ateniese
almeno una roccia deve rimanere
in ogni veduta
dici a te stesso
aggiusti una panoramica
del mare con la foschia
e la roccia porosa
per fissare l’unicità
per conservare un fatto che puoi cogliere
con la cosa dell’occhio
però il mare e la foschia
sono fatti reali
Il mare a sète
A questi rimandi non è esente nemmeno il concetto, portante per chi vi scrive, di desiderio:
come un uccello
preso al laccio in una trappola
geometrica
conosci solo il desiderio
di volar via dalle forme
Il taccuino ateniese
tutto questo solo un pensiero
o un desiderio
mentre continui a guardare
non sai decidere
di accettare cos’è
e cosa non è
Il mare a sète
E in effetti continuando il testo della prima sezione non può non balzare all’occhio il parallelismo che si viene a creare:
da una sagoma semicesellata
te ne sei andato
l’incompletezza
completa
Il taccuino ateniese
mentre continui a guardare
non sai decidere
di accettare cos’è
e cosa non è
Il mare a sète
colonne sorreggono ancora un tetto
per tutta la vita
sei andato in giro
immaginando il pieno
immaginando il vuoto
oggi questo sembra
pietra
aria
luminosa
piena
vuota
luce solare
Il taccuino ateniese
sassi arrotondati levigati
da acque millenarie
o dal tuo improvviso desiderio di purezza
al limite della sabbia
e del cambiamento costante
nella tua mente
li prendi in mano
li esamini
li rigetti in mare
tutti i sassi imperfetti
tutti i desideri imperfetti
Il mare a sète
*
Un’opera, Transizioni, che vista nel suo complesso si muove dalla terra al mare come un’osservazione che riflette ed esorta. Si prendano ad esempio i primi e gli ultimi versi di entrambe le sezioni:
quel che morde
dev’esser nutrito di nuovo
la tua ferita aperta
il serpente aspetta
*
cosa proteggi
dentro di te
più durevole del vino
spremuto dai grappoli
che afferri
*
da dentro l’anfora
come nell’utero
guardi le stelle
il bimbo che le fissa
ignora il nero soffitto
*
questi convolvoli sono lune
in orbita sopra la pietra
o spuntano da una crepa
due futuri
Il taccuino ateniese
come il mare si solleva
in goccioline di nebbia
in questa calma
e mentre entra l’alba scende
in pallida luce vaporosa
quando lo vedi
dimentichi
tenti di dimenticare
lo chiami sorgere dal mare
come l’acqua sale
dalla scura terra
l’oscura sorgente
mentre l’altra oscurità
addensata lassù
s’attenua e diventa
cascata di luce
sorgere del sole
Il mare a sète
quando la prepararono a morire
richiese i suoi orecchini
nient’altro
nessun altro
un nastro
dai capelli di qualcun’altra
brilla su questa pietra
*
il suo sandalo una lucciola
sopra l’erba mattutina
Il taccuino ateniese
scrivi di loro
di questo mare
quel mare
che non c’è più
come non c’è più
alcun momento che hai vissuto
del più leggero flusso e riflusso
va’
ora
Il mare a sète
Una chiusa luminosa come una crepa che si scopre essere nonostante tutto bagliore e non solo ferita. Ma anche interrogazione, esortazione a vivere, a osservare. Un’azione conclusiva che è un va’ / ora, perché è nell’andare la luce. È nell’avere indosso i sandali per camminare il bagliore che spezza l’oscurità.
Alessandro Canzian
whatever bites
must be fed again
your wound gapes
the snake waits
[…]
like a bird
snared in a noose
of geometry
you know only the desire
to fly up from forms
[…]
crouching at the rim
with a rope and bucket
but you are not
the deep water echoes
beyond the red poppies
another well brims
with dirt
your loss
is buried deep
The Athenian Notebook
as the sea rises
in droplets of mist
through the calmness
as it enters dawn descending
in pale vaporous light
when you see
you forget
try to forget
call it searise
as the water ascends
from the dark earth
the dark source
while the other darkness
gathered up there
fades becomes
lightfall
sunrise
[…]
rocks rounded smoothed
by age-old waters
or by your sudden desire for purity
at the limit of sand
and constant change
in your mind
you take them in hand
examine them
toss them back into the sea
all the imperfect rocks
all the imperfect wishes
[…]
perhaps seagulls
have to believe
and even shells whose flesh is alive
in their watery lairs
amid the swaying seaweed
you don’t know
perhaps the wind
perhaps the waves
will give hints
murmuring as they move on
you try to listen
to this first morning
if only
it were the first morning
The sea at sète