A interrompere il canto – Franco Buffoni

A interrompere il canto – Franco Buffoni

foto di Dino Ignani

 
 
 
 
V
 
Sotto il rimorchio di un camion
 
Minacciato d’arresto come PKK supporter,
Per giungere al Paese dell’obbligo flessibile
Aveva viaggiato fino a Trieste-Opicina
Sotto il rimorchio di un camion,
E alla fine ce l’aveva fatta
Col suo passaporto turco ormai scaduto
Ma orgogliosamente curdo nel cuore.
Mehmet bravo autista di furgone anche in Italia
A Genova di servizio sul viadotto
In un giorno d’agosto del diciotto.
 
 
 
 
 
 
VI
 
Il ponticello
 
Come quell’internato per due anni nel campo di Deblin
Che all’arrivo degli inglesi, finalmente libero,
Si incammina a piedi coi compagni
Per tornare in Italia.
A Essen un treno sovraccarico è in partenza verso Sud,
Salgono al volo sul tetto d’un vagone
Con poco cibo e trovata chissà come una bottiglia
Di vino del Reno.
Sanno che non sarà per molto
La linea poi è interrotta
Ma per qualche mezz’ora cantano contenti
E lui si erge sulle magre gambe
Per gridare più forte la sua gioia al solo
E ai compagni sdraiati,
Mentre un nero ponticello
Si avvicina alle sue spalle
Basso basso
A interrompere il canto
Con lo schianto secco
Del cranio sul mattone.
 
 
 
 
 
 
XII
 
Quando assetato
 
Bere sangue umano
Imitando gli osti delle saghe sui vampiri
È di moda tra i nuovi adolescenti.
“Quando assetato mi rupperò le vene
Per bere del mio sangue”,
Lo scriveva Mario Mieli nel settanta,
Col passato remoto al futuro,
Dal tempo di Farsalo al suo.
Aveva diciott’anni e si sapeva
Destreggiare in poesia come a teatro
Consapevole del fatto che –
Percorso il cammino dei trent’anni –
Non avrebbe rinunciato “al triduo d’amore
Per la noia d’altro cento”.
 
 
(Franco Buffoni, Da una tana di scoiattolo, Fallone editore, 2019)
 
 
 
 

Isolare una singola raccolta in un corpo poetico che investe quasi un tre lustri di lavoro (anche nel suo senso etimologico, labor) potrebbe risultare, in termini puramente critici, svilente rispetto alla necessità di scrittura dell’autore.

Tuttavia, considerando tanto le circostanze quanto le esigenze della pagina critica, l’indagine si dovrà concentrare primariamente sulle parole (tanto dette, che non) impresse sulla coltre bianca del libro.

Necessitando di un incipit, ma ancor più volendo fornire un ambito che possa abbracciare il movimento ipogeo alla poetica dell’autore, non già esplicandone le ragioni, quanto più accogliendone i bisogni, la prima parola che si affaccia è “compendio”.

Questo perché, “Da una tana di scoiattolo” – libricino esile per dimensione, ma non per contenuto – raccoglie certamente l’ultima opera poetica di Franco Buffoni, e per certi versi ricapitola l’esperienza del soggetto umano sotto l’egida di una ben più profonda consapevolezza delle sorti di questo, della natura più intima e unidirezionale, e della stigmatizzazione universale e perenne di quanto esistente come creatura, animale o vegetale, e persino microscopica.

Narrativo e lungoversista, e comunque solitario in un certo senso di porsi lirico, il dettato assume una posa completamente frontale; e sembra sagomare la propria dimensione nella realtà costrittiva dell’essere come controcanto all’insussistenza di fronte alla tragicità dell’esistere – il quale trova incarnato nelle varie personæ che si affacciano come memorie di narrazioni altrui, e proprie.

Ma se la pagina si popola di figure (vascelli, per certi versi, di una narrazione) la sovranità esclusiva del verso appartiene alla morte.

O meglio: è della mortalità il ruolo di protagonista assoluto (seppur sostanzialmente taciuto, quantomeno alla lettera) della poesia in questo libro serrata – e della più profonda cognizione che il silente patronato della stessa.

Strisciante e sibilante, è il sentimento specifico della fine a iniettarsi nella parola contenuta in queste dodici poesie: seppur la gioia che la precede sia molta e vera, nulla può arrestare l’esizio; passi questo per o un accidente, o per il naturale decorso degli eventi, o per quel silenzio che lo rende innominato.

Considerato questo, ed esaminando la natura mortale dei vivi e della vita, l’aspetto drammatico della poesia di Buffoni – e cinicamente disillusa per certi versi – si marezza talora con l’ironica amarezza di non poter far altro che assistere alla genesi ed alla distruzione di quanto contenuto nel dettato.

In questo, quindi, potremmo affermare che l’autore e il lettore compartecipino ad una realtà testuale in cui si sovrappongono livelli diversi: contesto e ricordo, primi piani e sfondi, interni e campiture si susseguono e si incardinano nell’epicentro del verso, il cui parossismo è la demolizione dei personaggi non come atteggiamento polemico fine a sé stesso, né frutto di una nevrosi nichilista “di ritorno” – ma sostanziosa conoscenza e dell’epifenomeno umano, e della sua essenza.

Perciò la struttura a mosaico della ricostruzione suggerisce una diversa valutazione e della figura e dell’opera del nostro: infatti, questo testo si connota in una plaquette che supera la poesia civilistica e l’impegno sociale sempre propria all’autore, aprendo il verso ad uno scenario che trapassa il postmoderno da un lato, e dall’altro rivaluta l’esistente alla luce della propria più naturale conclusione.

Pur non lesinando sulla nozione storiografica, Buffoni consegna alla carta un cortocircuito nella produzione letteraria, quando sembra ricalcare la tendenza umana di trovare la possibilità artistica anche (e soprattutto) nel torbido della realtà accaduta, dimostrando l’esistere al mondo come stato creaturale, ed a questo vincolato fino all’ultimo momento.

 

Carlo Ragliani