Sul decadimento del linguaggio pubblico

Nasce oggi la nuova rubrica di Laboratori Poesia dedicata ai temi e ai dibattiti in rivista. Gli articoli più importanti e le anteprime più interessanti verranno proposte nel nostro Osservatorio Poetico al fine di stimolare il confronto critico e letterario per una nuova sinergia che sappia prendere il meglio di ambedue i mondi: cartaceo e online. Partiamo con “L’Immaginazione” di Manni Editore (num. 339, gennaio-febbraio 2024) e l’articolo di Piero Dorfles per la rubrica Il dinosauro. Una riflessione sul decadimento del linguaggio pubblico.

Di seguito la copertina del numero de “L’Immaginazione” da cui è tratto l’articolo con il link per l’acquisto/maggiori informazioni sulla rivista (QUI). Del mese scorso ricordiamo inoltre l’articolo Cinque criteri (forse) inconciliabili di Gilda Policastro tratto da “Laboratori critici” di Novembre 2023 (Anno III, Num. 4 – QUI).

La Redazione

 

 

Per una volta mi prendo la libertà, su una rivista culturale, di lanciare un allarme.

Il linguaggio pubblico è sempre stato tentato da banalizzazioni e da eccessi polemici. Mai come oggi però, a me pare, la tentazione di risolvere i conflitti con lo sberleffo, la rissa e l’insulto sono stati così diffusi e pervasivi. Se si trattasse soltanto dell’oggetto di uno studio linguistico o antropologico, potremmo dire che si tratta di interessanti materie di indagine, anche scientifica. Quello di cui però ho sentore è che non di semplice degenerazione verbale si tratti, ma di sostanza culturale, profonda e gravida di nefaste conseguenze.

In un dibattito, davanti a una divergenza di opinioni, invece di verificarsi uno scambio di riflessioni sul motivo per cui vi sono distanze significative, oggi prevale il tentativo di darsi sulla voce per impedire all’altro di esprimersi, lo scambio di improperi, il dileggio fino all’insulto.

Nei fogli di opinione spesso, al posto di una precisa descrizione dei difetti del ragionamento dell’avversario, si sostituiscono giochi di parole, nomignoli irridenti, lazzi e sfottò che servono a mettere in ridicolo non le idee, ma chi le espone; non la sostanza del discorso, ma l’esistenza stessa dell’avversario. Se questo accade occasionalmente nei media tradizionali, nella rete poi è diventato la norma, producendo fertile terreno per seminare disprezzo, razzismo e qualunquismo.

La sostanza nascosta da questa deriva di taglio goliardico è che i motivi del contendere vanno sfumando, lasciando nel pubblico la sensazione che dietro gli schieramenti rappresentati non ci siano idee, ragionamenti, lunghe riflessioni e un bagaglio di conoscenze, ma solo il gusto di una battaglia combattuta con ottusa conflittualità.

Che il più straordinario successo politico degli ultimi anni sia quello di un movimento che ha nella sua sigla la “V” di una insultante e qualunquistica interiezione, dunque, non deve far pensare alla necessità di cambiare una classe politica che – cosa del tutto plausibile – meritava di essere mandata a quel paese, quanto piuttosto a un ribellismo generico quanto indeterminato. Un bisogno di cambiamento non di idee ma di facce, cavalcato da chi aveva dimestichezza con la comunicazione di massa e strizzava l’occhio a chi è sensibile alla volgarità e all’irrisione.

Quel “V”, spiace dirlo, anche se nato da rivendicazioni legittime, assomiglia molto al “mene frego” mussoliniano. Quel ribellismo fa pensare all’insofferenza per la stasi politica che ha caratterizzato gli anni Venti, e che ha prodotto la perdita di fiducia negli strumenti della democrazia che è alla base delle tragedie che hanno devastato il Novecento. Ecco, il mio timore è che quella deriva di ostilità senza vero costrutto che caratterizza il dibattito sociale e politico in Italia, oggi, abbia la stessa sostanza e le stesse conseguenze della perdita di valore del civile confronto che ha prodotto tutti i fascismi e quelle forme degenerative che oggi chiamiamo democrature. La storia non si ripete, ma lo smarrimento della progettualità, del coinvolgimento nel serio confronto che dovrebbe caratterizzare la costruzione dell’opinione pubblica sono segnali preoccupanti. Specie considerando le guerre che segnano le divisioni del mondo, sempre più accentuate, in modo apparentemente inconciliabile.

Mi sento in dovere di parlarne in questa sede perché si tratta di una deriva, prima che politica, culturale. Sento la necessità di dirlo ad alta voce perché mi pare che il rischio di una deriva autoritaria sia sottovalutato. L’attività pubblica che è alimentata solo dalla passione e non dal senso di responsabilità non rischia di essere solo ostile e violenta ma di produrli, in pratica, gli scontri e la violenza. Quando si sollecita ostilità verso chi non condivide i propri valori, ci si tagliano alle spalle i compromessi necessari per ottenere dei risultati politici almeno in parte condivisi, frutto di un confronto costruttivo e di un dibattito sereno. Negli scritti sulla Libertà, Isaiah Berlin dice che “Poche cose hanno fatto più danno della convinzione di essere i soli a possedere la verità”. E in effetti solo la consapevolezza che la diversità non ci rende più poveri, ma più civili, permette il progresso verso una convivenza pacifica; la sua mancanza alimenta il pregiudizio e i preconcetti divisivi. Alimenta un sentimento di aggressività diffusa, spinge all’intolleranza, produce una collettività incattivita, pronta a rinunciare ai diritti conquistati in nome di un’imposizione violenta della propria presa sul potere. A me pare che questo sia sotto gli occhi di tutti.

Per sconfiggere la violenza e i pregiudizi abbiamo un solo strumento: tornare alla cultura del dialogo, della comprensione, della tolleranza, della conoscenza. Se non è troppo tardi.

Piero Dorfles