La forza trasformativa e ricostruttiva dell’arte in rapporto all’Io, alla natura e al dolore della perdita è forma e contenuto all’interno di Ter(r)apeutica (Ronzani Editore, 2023, collana Lietocolle), opera poetica d’esordio di Luca Chendi. Da un vuoto lacerante e introspettivo a una contemplazione serena del «film» dell’esistenza, i versi percorrono il trauma del lutto e la gradualità di un processo curativo e creativo, facendosi voce di uno «slancio orizzontale alle radici».
Dove la morte e la violenza della separazione mettono in crisi lo stesso concetto di casa e «il ricordo è come un fiore piantato nel deserto», gli scorci quotidiani oscillano tra buio e luce, familiarità ed estraneità. Il pensiero dei luoghi e dei corpi affonda nella domanda di «cos’è che muore / e cosa invece ha tempo», cerca lungo le crepe e l’intonaco delle pareti il senso profondo della parola. «Amare sarà adagiare le difese / capire insieme lo spazio»: le stanze tradiscono un respiro «fuori stagione», diventano nel segno della sottrazione testimonianza.
Di pagina in pagina, una progressiva spoliazione e scarnificazione del soggetto rimette il movimento della vita al centro. La consapevolezza di un ripetersi biologico dell’incontro e della perdita è il motore di una scrittura poetica levigata e frammentaria, «suono» e «graffio del suono, / una canzone sola, posata nella secchezza / del vento».
Come sottolinea lo stesso autore nella nota introduttiva, le tre sezioni, Repost | Dolore, Miele e Tra i corti di Moretti, sondano, a partire dall’etimologia greca, i significati insiti nel termine ‘terapeutico’: ‘curare se stessi’, ‘mettersi al servizio di se stessi, ritrovare relazioni’ e ‘rendere la propria esperienza culto’. Lo sguardo si evolve da dentro a fuori, offre sollievo alla sofferenza personale con la riscoperta dell’Altro e dell’umanità che intride la Terra.
La prima sezione Repost | Dolore consegna la fase più struggente e delicata di raccoglimento e desolazione, la nuda necessità del pianto di fronte all’abbandono:
Adesso è soltanto il pianto che rimane sui vetri
e nella lacrima che appoggia quasi una pioggia da ascoltare.
Avrà una lunga battitura il grano.
Da dentro dove gli armadi si innalzano
ai nugoli bianchi del cielo
tutto l’intonaco crepa alla vita.
Un’alternanza di gelo e bruciore si posa sulla pelle fino all’essenza, sosta dentro il taglio e la sospensione dei volti nelle fotografie. La scomparsa si lega al buio, all’aridità e allo smarrimento di occhi che non vedono o non possono guardare. La mancanza custodisce nella sua dimensione notturna di scavo interiore la «sete alle radici», una tensione che è eredità e passo, ricerca di «bilanciamento» nella terra.
La seconda sezione Miele ruota intorno al desiderio e alle relazioni. Le contrastanti sfaccettature dei sentimenti vengono affrontate alla luce delle singole esperienze che si intersecano e motivano nella forza armonica della natura, mentre l’immaginario stringe il lavoro artistico alla fertilità:
Da qui, l’universale
rinvigoriva anche i fiori
morti nel gelo.
Tutto è come un parto.
Dentro «questo tendere all’incontro / dell’amore puro» la ferita del lutto trova conforto e dolcezza lenitiva. Gli urti coesistono con lente «fioriture invernali», ma proprio tramite l’«ematoma» sopravviene un riconoscimento, un’adesione alla vita che sfocia in rinnovato slancio verso l’Altro. Nel valore terapeutico di legami e intrecci, i confini e le distanze dei corpi vengono ridisegnati, tracciando «una strada di mezzo / un fiato diverso che starci accanto / dice tutta l’umanità».
Nella terza e ultima sezione, Tra i corti di Moretti, il soggetto diventa spettatore di un «film che rimane come / bacio sulla guancia». La visione viene riacquistata nel momento in cui si accetta concretamente l’assenza e il silenzio.
«Tutto in realtà scorre / eppure ci approssimiamo alle forme»: grazie alla fruizione cinematografica il particolare e il frammento approdano a una giusta prospettiva storica e a un loro significare in rapporto al mondo e al suo fluire. La trasformazione della perdita in testimonianza mediante la rielaborazione e la sublimazione artistica dona «quiete», un restare «in pochi istanti lunghi / come anni impressi nella resina».
La parola poetica costruisce affacci e aperture dalle rovine e dalle fondamenta dei ricordi mentre lo sguardo si rivolge verso un soffio vitale che ci attraversa e supera:
Così guadagna senso il gesto:
aprire la finestra per lasciare al mondo
tutte le sue ultime cose
sentire che la prigione ora ha
una via di fuga nella memoria.
Uno spiraglio battesimale si accompagna alla libertà del vento, entra dove c’è «una fede / ma senza ritorno»: il distacco non si può racchiudere, «vive sulla pelle / sfreccia / e va».
Elisa Nanini
La vita cerca in te che pensi
di dare nomi nuovi alle cose
un seme
un preludio
una sete
ma in bocca è solo uno stecco secco
il ricordo.
Portami allora una voce
ferma, che dica cos’è che muore
e cosa invece ha tempo.
L’urto è consegnarsi
indifeso alla terra.
Credo ancora di giocarmi la partita
ma le sento crescere dentro queste
fioriture invernali. Sono lividi,
il freddo li rallenta. Intorno l’espandersi
è fatica distribuita male.
Qui solo mi rimane l’ematoma
a ricordarmi che sono
ancorato ai mortali.
Se scelgo
mi prendo questo attimo
per mancare. Quando
il gesto ritorna reale
e il vento tiene dentro tutto
mi getto nel battesimo
del tempo: una fede
ma senza ritorno.
Ti tocco e le dita subito
scommettono su tutto quello
che non sei.
In una pausa
l’addio non lo racchiudo
vive sulla pelle
sfreccia
e va.