Cinque criteri (forse) inconciliabili

Il seguente articolo di Gilda Policastro è apparso su “Laboratori critici” di Novembre 2023 (Anno III, Num. 4). Fa seguito agli articoli di Tommaso Di Dio usciti su Nazione Indiana (QUI, sempre tratto dal numero di Novembre 2023) e pordenoneleggepoesia.it (QUI, tratto dal Num. 1 di Maggio 2022). Il desiderio è aprire una finestra online di discussione che faccia interagire le riviste cartacee così come auspicato da Alessandro Canzian nello Speciale di alcuni giorni fa (Speciale Maurizio Cucchi: o dell’insoddisfazione persistente, QUI) che partiva da un’anteprima di Gianfranco Lauretano su Pangea (QUI) che riportava uno stralcio da un saggio di prossima pubblicazione sull'”Annuario di Poesia.

La Redazione

 

 

1.

Nelle regioni a statuto speciale della “poesia” (diversa, nel senso comune, dalla “scrittura”, tanto è vero che spesso si è soliti precisare, nelle biografie, “poeta e scrittore”, identificando per lo più la seconda qualifica con la scrittura di romanzi) è particolarmente difficile trovare moneta corrente da tutti identificabile, riconoscibile e certificabile sul piano del valore. Da un lato, resiste a ogni avanguardia la lirica come “avventura storica dell’animo” (per dirla con Leopardi) o “notazione di sensibilità” (in termini più spregiativi, invece, con Sanguineti); e d’altra parte risulta sempre più evidente (dovrebbe risultare sempre più evidente) come la poesia sia un fatto di materia, di parole, di suoni, di linguaggio e di “concentrazione del linguaggio” (stavolta la definizione è di Carlo Bordini, riportata qui da un contesto orale – una lezione per un corso di scrittura al quale ebbi l’onore e il piacere di ospitarlo).

In generale c’è attorno alla poesia una mistica resistente, che la vuole arte speciale, da anime belle, elette. La poesia è viceversa un gioco di lingua, un modo, certo, per dire le cose come stanno, ma un modo tra tanti.

Nella poesia contemporanea, non solo in quella sperimentale, questo modo è sempre più ibridato e contaminato con altri linguaggi, con la videoarte, la spoken word, il googlism, con gli strumenti e i linguaggi del mondo digitale, da cui non possiamo più prescindere, evidentemente. Quando Arbasino raccomandava ai suoi coetanei degli anni Sessanta di svecchiare le letture e andare a Chiasso, intendeva esortarli ad aprire gli occhi su quello che accadeva attorno e fuori dai nostri confini. Chiasso oggi è su Google Maps, come ho ricordato nel mio ultimo saggio sulla poesia (uscito nel 2021 per Mimesis), nel senso che è tutto molto accessibile, a volerlo cercare. Viceversa, sorprende nella poesia contemporanea, soprattutto in quella egemone (andando dall’ ormai instagrammer a pieno servizio Franco Arminio alla “neolaureata” Vivian Lamarque, insignita del recente Premio Strega Poesia), un patente ritardo rispetto alle istanze di rinnovamento da sempre presenti nel campo letterario (“bisogna essere assolutamente moderni”, ha predicato a quanto pare piuttosto vanamente Rimbaud), istanze che riguardano le varie arti e per contagio reciproco si estendono a tutte, creando fecondi ibridi e contaminazioni. Gli artisti non dipingono (nella gran parte dei casi) cristi e madonne come i precursori rinascimentali, mentre fare il poeta vuol dire per forza abbinarsi a un immaginario vecchio, ingenuo, sentimentale e naif. Gli strumenti della poesia restano gli stessi da cent’anni, da quando Barthes, citando Molière, definiva la poesia “prosa più a+b+c”, dove a+b+c sono le rime, i tropi, l’andare a capo. Già negli anni Sessanta si va a capo molto meno, si va a capo a fisarmonica, come Elio Pagliarani, si predilige una dimensione orizzontale che appartiene sempre di più all’idealtipo contemporaneo, andando dai testi di Jean-Marie Gleize a Nathalie Quintane, o, se si verticalizza, si sostituisce alla strofe la modalità elencatoria, come in Ron Silliman o nel nostro Gherardo Bortolotti.

 

2.

Mentre il “poetico” si è esteso a qualsiasi cosa e il tiktoker-chef può dire che la cremina della carbonara è “una poesia”, l’arte che si fa con la scrittura e non con le uova, rimane saldamente ai margini del mercato ed è considerata ormai irreversibilmente la cenerentola della produzione letteraria, insieme alla saggistica, mentre il romanzo la fa da padrone. In questo quadro di svalutazione, in cui lo spettacolo del recente Premio Strega è stato di desolante uniformità anagrafica e di dettato, mentre ai giovani artisti ospiti si affidava l’ingrato compito di tenere svegli gli spettatori con la messa in musica – a rimarcare che da solo proprio non può farcela, un testo, a farsi ascoltare, comprendere e magari gradire – su quali criteri minimi di base su può convenire, dalle diverse enclave (ricerca o postlirica, dicendola massimamente), su cosa si debba considerare poesia oggi?

 

3.

Un’affermazione che in modo curioso potrebbe appartenere a due campioni opposti dell’area sperimentale e di quella lirica più tradizionale, ovvero Nanni Balestrini e Milo De Angelis, è quella secondo cui l’arte non trasmette concetti ma emozioni. È un punto cruciale, questo. In poesia le emozioni passano attraverso le parole, che sono meno immediate dei suoni, dei colori, o delle immagini e che, anzi, quelle immagini devono incaricarsi di produrle in forza di evocazioni, elusioni, suggestioni (la vaghezza ancora una volta leopardiana). Le parole di De Angelis sono oracolari, criptiche, non decifrabili nella loro esattezza referenziale: «in noi giungerà l’universo, / quel silenzio frontale / dove eravamo / già stati». Oppure: «un temporale / che ragiona in noi». Questi coaguli di senso non immediati sono l’esito di una ricerca vitale, a sentire l’autore, quella del contatto profondo, teso, continuativo tra la scrittura e la parola, il verbo originario, i sentimenti universali. Secondo Balestrini la parola è il canale del già detto, ed è questo a produrre immaginazione e poesia, non la voce dell’io («Io non ho niente da dire», dichiarava, mentre l’altro campione neoavanguardista Edoardo Sanguineti sognava di “sprofondare dentro un assoluto anonimato”, parafrasando). «Noi non leggiamo per sentire la voce del poeta, ma per sentire la voce del linguaggio», ancora con Nanni. Voce del linguaggio che è, poi, «l’impura voce del contemporaneo» nel ‘61.

 

4.

Mi ha sempre colpito nella definizione dei Novissimi di Alfredo Giuliani (prefatore dell’antologia) l’idea della lingua del contemporaneo come un effetto di attrito e non di abitudine: la realtà ci parla infatti «coi suoi segni inconciliabili». Ecco un’altra questione su cui difficilmente ci si intende, tra poeti di diverse aree, ossia tra chi vede la poesia come generata da un eccezionale gettito d’ispirazione e chi invece la vuole congegnata, ossia esito di un procedimento e di una riflessione (mai sia), tra chi la fa con gli ah e gli ooh e chi con gli algoritmi e le reti neurali, chi la recita sui palchi e chi la scrolla dagli schermi. In realtà si tratta degli stessi individui empirici, che usano i telefoni, scaricano le app per incontrare amici o fidanzarsi, ma quando scrivono chissà perché i primi ritornano pensosi come Leopardi, gli altri dimenticano di avere una consistenza anche emotiva e di non poterne tutto sommato prescindere nemmeno quando googlano o assemblano stringhe di testo. L’algoritmo va dove ci porta il cuore, anche se è ben addestrato a dissimularlo. Le poesie hanno un’anima, tutte, anche Tape Mark I che Balestrini aveva fatto scrivere (o meglio cut-uppare, se ci si passa il neologismo) al calcolatore. Questo perché, come spiegano le neuroscienze, abbiamo ancora bisogno dell’arte per essere persone migliori, più empatiche, soprattutto, perché è questo che l’arte fa: ci mette nei panni degli altri.

 

5.

Un ultimo punto su cui si è invece più o meno tutti d’accordo è che la poesia sia una pratica seria, nella cornice pragmatica attuale, un campo di conflitti, un’area di schieramenti e di contese di potere. Proprio come tutte le attività umane. I poeti scrivono con la mistica in punta di penna, ma vogliono ben posizionarsi, a livello di reputazione. Aspirano ai premi (dicevamo) e a essere sul fatto del giorno, per accrescere il capitale di visibilità. Così il fatto del giorno, la storia, l’impegno, in poesia, oggi, non sono un modo perché il poeta si faccia largo tra le cose e ne dica l’essenza universale, come voleva il Fortini di Foglio di via, ma un puntello all’ego, un’occasione per gli avvoltoi di gettarsi in mezzo alle carogne e portarsi a casa quel che serve e (forse) basta alla sopravvivenza. Carmina non dant panem, ma quanti like.

Gilda Policastro

 
 

Foto di copertina di Dino Ignani