Speciale Stefano Simoncelli: la tenerezza nei versi

In occasione del 74esimo compleanno di Stefano Simoncelli, la Redazione lo omaggia con uno Speciale a cura di Rocío Bolaños e con pezzi di Federico Migliorati, Rocío Bolaños e Andrea Carloni.

 
 

Stazione remote. Poesie scelte 2004-2020, Stefano Simoncelli (Marcos y Marcos, 2023)

Se il luogo in cui nasciamo e in cui agisce la nostra vita al suo sbocciare è destinato a contrassegnare l’intero corso futuro, per Stefano Simoncelli, erede ideali di poeti come Giovanni Raboni e Vittorio Sereni nonché sodale del concittadino Ferruccio Benzoni che fu suo mentore, dobbiamo riandare al mondo marino per cogliere umori e sensazioni e segnatamente la vena più vivace della sua ingente produzione letteraria: il mare di Cesenatico dove ha avuto i natali, il porto-canale leonardesco che n’è il simbolo, il fiume, persino il borgo scelto come buen retiro da anni (dall’evocativo nome di Acquarola, sulle colline di Cesena) rappresentano un richiamo ineliminabile, indissolubile tra pensiero e azione, immaginazione e realtà concreta e al contempo suscitano una pungente, ancestrale, dominante tensione.
Tutto ciò è lampante in Stazioni remote (Marcos y Marcos, collana Le ali, 2023), che raccoglie versi scelti del suo paesaggio interiore, non scevri da risvolti sociali, composti nel periodo 2004-2020 dove il topos geografico accompagna, dialoga, si confronta con l’aspetto temporale in un cangiante, vivido scambio dialettico. Il titolo dato alla raccolta è polisemantico: in essa affluiscono infatti plurime significazioni di una poesia tersa e immediata, priva di orpelli linguistici, naturaliter figlia di un’esperienza umana cordiale, appartata, discreta, lontanissima da consorterie e poteri di qualsivoglia natura e giustappunto per questo poco propensa a compromessi. In Simoncelli, autore raffinato e colto, lo sguardo attende a una malinconia di fondo, conseguenza di assenze familiari e amicali marcate, con le ombre a insidiare l’incedere nel presente. Nella casa avita gli oggetti «dimenticati» assumono le sembianze di ombre vitali, di perimetri anche geografici di un ricordo indelebile: il poeta diventa così «custode di reliquie» e, come per Giovanni Pascoli, il rammentare si fa poesia e viceversa. C’è, forse la «maglia rotta nella rete» che dà modo di guardare, di porsi oltre, di «sgusciare» per ritrovare colei che non è più, ma è sempre, vale a dire l’amata madre. Gli affetti lontani come «stazioni remote» sono incistati senza soluzione di continuità nell’aria della canzone, si potrebbe dire di trovarsi di fronte a una commistione tra i vivi e i morti, ove le atmosfere di un Alfonso Gatto («mi basterebbe», noto incipit) rivolte al padre si diluiscono in Simoncelli tra sembianze di un déjà-vu riprodotto nuovamente.

Si fa strada una temperata atmosfera, nella memoria «che è la mia parte più fragile e sfuggente» e che avvicina il «fragile capolavoro» di Roberto Pazzi nell’«aria / che ho respirato e respiro / con immutata gioia». Ad affacciarsi è spesso l’elemento marino del paese natìo che inebria l’anima, che funge da suggello ardente, con il porto-canale ove è la casa-museo di un altro grande intellettuale, il Crepuscolare Marino Moretti.

Il vagabondaggio temporo-spaziale è compiuto a ritroso laddove si è respirata la presenza materna, un transfert emotivo, una modifica delle coordinate per recuperare quello che è disperso, come in Giorgio Caproni quando «invitava» la propria anima a incontrare la madre Annina Picchi in lungo e il largo per le vie di Livorno. Così, nell’incedere dell’età, quando il figlio diventa a sua volta padre nel descrivere il proprio genitore, può accadere che subentri la pietas, quel perdono che si concede per qualche scappatella, per qualche vizio di troppo.

A tessere come in un ricamo l’intera silloge è il silenzio: grazie a esso noi percepiamo quelle timide scoperte che si palesano magari nella dimensione onirica. Si tratta di figure, volti, azioni familiari e care, dardeggianti e luminose, ma altresì «spiriti guida» e percorsi immaginari in altre vite. È un silenzio talvolta greve, quando affatica il cuore negli interstizi del ri-cordare nell’accezione di ricondurre al cuore, talaltra più sommesso e sopportabile mentre si fa strada la curva che conduce all’oggi, a una distanza temporale dal fatto narrato ch’è ormai sedimentato e pacificato per diventare quindi evocato. «La poesia è salvifica e vera, ma necessita di una fedeltà totale» sostiene il poeta romagnolo, ed è proprio tale fedeltà sempre rivendicata che lo induce a scrivere senza soluzione di continuità, ogni giorno, costantemente, come fosse un’ossessione, a costo di scontrarsi «con tante altre paure che ho disseminato / qua e là come mine tra la sabbia». Quelle paure che si manifestano sul limitare della vecchiaia, quando sopraggiungono stanchezza esistenziale e malattie: ecco, allora, che assistiamo a uno scarto temporale in cui il tu autoriferito osserva allo specchio il proprio disfacimento per finire di «coincidere» con gli amati genitori, nelle debolezze, nella sofferenza, nel trasporto difficile delle ore, l’altro da sé svanisce, si decostruisce e tende a diventare un prolungamento di noi stessi. Accade, per esempio, nella degenza ospedaliera, dove scatta una solidarietà umana, fraterna, tra perfetti sconosciuti: il dolore è scaturigine di una gioia leggera ed effimera eppur presente, palpabile, quella di comuni sventurati a cui la sorte ha riservato, per caso, senza volerlo, di vivere lo stesso tempo di travaglio e tregenda e di concepire che «se un mattino non lo incontri / ti preoccupi e lo cerchi» (non è forse questa la morale più profonda della Ginestra leopardiana?). La «cronaca» di una quotidianità, tra odori di disinfettanti e stanze popolate di medici, acquista in tal modo il ruolo di un’esperienza unica e irripetibile, di sensazioni impaniate, fragilità e lacune, slanci di perdono e disillusioni, in una parola: di umanità. Ma è ancora e soprattutto il bisogno insopprimibile di riempire il vuoto, «il nulla», a cesellare i componimenti, quel vuoto che la poesia di Simoncelli sa così bene colmare, con un verso carico di suggestioni e di solidi punti di riferimento, elegante e schietto, degno della più nobile tradizione della nostra epoca.

Federico Migliorati

 
 
 
 
Non sono più quello che sembra ritorni
da lungo viaggio portandoti in regalo
il cappello parigino con le piume
che avevi sognato, ma
sono nel gelo dell’imbarcadero,
esattamente dove volevo ti allarmassi
non vedendomi arrivare: il cappotto blu
da chauffeur zuppo di pioggia e nevischio,
il cuore in tumulto per la corsa a perdifiato
tra il finimondo del mercato, il muschio
tra i capelli di chissà quale presepio …
Avevi ragione: resterò per sempre
il ritardatario dall’aria trasognata
che guarda passare le nuvole,
lo scolaro che non sorride
in fondo alla fotografia.
 
 
 
 
 
 
(terza lettera)
 
Rimanga soltanto tra noi
quello che oggi ti scrivo
dai confini del nulla.
Chi l’avrebbe mai detto
la prima volta che ti ho vista
così piccola, timida e spaventata
che ti sarebbe piaciuto fino a questo punto
il rischio estremo di restarmi accanto,
affacciarti ogni giorno sul baratro,
sopportarmi quando do di matto,
accompagnarmi nella tenerezza,
nella gioia, nella malattia, nel pianto
proteggendomi come se fossi il figlio
che abbiamo desiderato e mai avuto.
Insomma: che ti amassi così tanto.
 
 
 
 
 
 
Non ho più bisogno dei morti
volevo scriverti l’altro giorno,
ma oggi sono ritornato
di nascosto nella casa sul porto
e rovisto nel buio dei tuoi cassetti,
tocco alla cieca gli abiti nell’armadio,
la coperta bianca del letto e il comodino
con le macchie incancellabili dei caffè
che non bevi da tanti, troppi risvegli
e sento che è ancora qui l’aria
che hai respirato e respiro
con immutata gioia
e tormento
 
 
 
 
 
 
Dopo alcuni giorni scatta la solidarietà
e qualcosa che somiglia all’amicizia
per chi incontri in carrozzella
o avanza arrancando lungo la corsia.
Gli appoggi la mano sulla spalla
come se foste in un bar
davanti a un caffè o un aperitivo
cui segue un breve colloquio sul tempo,
sul lavoro che lo aspetta una volta dimesso
e così via fino al momento in cui capisci
che appartiene alla tua stessa tribù
di condannati che si aggrappano
con ogni cellula alla vita
e se un mattino non lo incontri
ti preoccupi e lo cerchi.
 
 
 
 
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