Speciale Roberto Pazzi: Il mio amico Bob. Un ritratto

È bruciata la biblioteca di Alessandria d’Egitto. Il mio primo pensiero, quando ho saputo che era morto. Era la cosa che più ammiravo, e invidiavo, in lui. Un patrimonio incommensurabile di letture e conoscenza, e una memoria formidabile. Roberto Pazzi era Internet prima di Internet. La sua mente una prodigiosa rete di milioni di pagine legate amorosamente in una costellazione di link e note a piè di pagina. Vedeva una scarpa, una farfalla, le tagliatelle fumanti nel piatto, e d’incanto (un incanto da attore consumato) faceva un collegamento a non so quale poeta greco del primo secolo dopo Cristo, citava un verso – gli occhi improvvisamente di bragia (questa gli sarebbe piaciuta, lo so) – che lo conduceva poi a un romanzo provenzale del ‘300 e muovendo suadente le mani come un direttore d’orchestra faceva un altro balzo di 500 anni, a cavallo dell’ippogrifo della sua fantasia, e passava per Proust (passava sempre per Proust) e infine, tutto contento, vorace, affondava la forchetta nel piatto, la forchetta in bocca, e le tagliatelle tornavano tagliatelle. Aveva questo bisogno di trasformare la vita. La realtà lo attraeva ma il realismo lo inorridiva. Una volta in macchina non riusciva a tirar giù il finestrino e mi chiede: come funziona questa bifora?

C’era orgoglio, c’era vanità nelle sue straordinarie, coltissime performance? Certo, era un vanitoso, ma la sua vanità si sfogava altrove. Quando diceva bifora invece che finestrino, quando citava Kavafis o ti raccontava le vicende delle monarchie europee come il più ipnotico degli storyteller e in un attimo ti ritrovavi dalla sua cucina (mentre ti faceva il caffè) catapultato all’improvviso alla corte del re di Portogallo, con un linguaggio che splendeva quanto i monili delle cortigiane e quasi avesse provato quel monologo mille volte (forse era così ) – c’erano, in quei momenti, un divertimento puro, la febbre gioiosa della letteratura, la fuga verso mondi antichi e inesplorati, il piacere tutto verbale di raccontare e insegnare, e non c’era mai nulla di accademico, di polveroso. Quella sua immensa cultura era vita che palpitava, Leopardi recitato a memoria diventava energia pura, sangue, carne (la sua parola preferita), produceva in corpo ispirazione e tormento invincibili: dovevi subito tornare a casa a leggere tutti i libri del mondo e sapevi che non avevi più tempo per leggere tutti i libri del mondo, che non ce l’avresti mai fatta. Non eri Roberto Pazzi. Una di quelle biblioteche ambulanti che vagano per il mondo. Il Borges di Ferrara.

Mi sono divertito così tanto con lui, non ricordo una volta in cui non mi sia divertito. Era come stare a teatro. Recitava, s’imbellettava, aveva mille maschere (e la verità non era dietro le maschere, la verità erano le maschere). La sua era una risata sonante, tonante, la sua voce s’alzava di tono, si abbassava, perfettamente a tempo, spalancava gli occhi, scintille d’argento sprizzavano dai suoi occhi che sapeva magnetici, dalla sua barba fieramente curata. Il suo modo famelico di aggredire la vita verbalmente, di trastullarsi con un’idea come con una palla iridescente, lanciarla in aria, farla correre, ripigliarla – avrebbe divertito chiunque: proprio perché il suo immenso patrimonio culturale era gioco, era vita, non era necessario esser colti per farsi incantare. Un fanciullo o mia nonna sarebbero rimasti incantati uguali. Negli ultimi anni abbiamo avuto in Italia splendidi divulgatori culturali – ma per me Roberto Pazzi era insuperabile. Quando parlava trasformava il fango in oro e i finestrini in bifore. Del resto, come scriveva Oscar Wilde, incantatore di serpenti quanto Pazzi, «Chi chiama vanga una vanga dovrebbe essere costretto ad usarla. È l’unica cosa per cui è adatto». (Pazzi, come Wilde, avrebbe voluto essere Lord Henry Wotton, ma era Basil Hallward).

Non è paradossale che mi sia divertito così tanto con uno che ogni volta mi parlava della morte? Con sterminata bibliografia annessa, ovviamente. La morte, con il suo potere di relativizzare tutto, di rendere tutto infinitamente vano, lo ossessionava, venava di malinconia anche (e soprattutto) il momento del trionfo (che comunque non ha smesso di inseguire fino all’ultimo), perché amava ferocemente la vita. Nel suo salotto teneva un quadro (fatto da un amico, credo) in cui venivano riprodotti i primi versi della sua poesia Il filo delle bugie:

A me la mia vita non piace
e non posso cambiarla.
Mi sforzo allora di farmela piacere
e qualche volta mi dimentico,
dico che la vita è bella.
Ma la vita degli altri
mi sta sempre davanti
e mi viene una gran malinconia
perché nessuno riesce a mentire
davanti a me che so mentire qualche volta
così bene da dimenticare
che mi sto inventando la vita.

Quello che non gli piaceva della vita in realtà era solo una cosa: che finisse. La vanità del tutto lo faceva ammattire. Come chiunque, da piccolo aveva scoperto la morte e non era mai riuscito ad accettarne l’idea; nessuno lo fa, ma la maggior parte di noi cerca di scordarlo, immergendosi nel lavoro, nella famiglia, nel ritmo forsennato dell’esistenza; il modo di Pazzi invece era la sublime menzogna poetica, l’invenzione artistica del vivere, la fuga e la trasformazione concesse dall’arte. Era attaccato violentemente alla vita. Alla sua, in particolare. Voglio dire, era così soddisfatto di essere Roberto Pazzi. Che non voleva dire essere soddisfatto in generale e accettarsi, o almeno accettarsi del tutto. Anche questo può sembrare un paradosso – mi rendo conto di come la sua biografia sia corsa sul filo del paradosso, delle contraddizioni, e forse la sua letteratura nasce dalla scintilla scaturente da sentimenti opposti che cozzano, un po’ come Petrarca, e in primo luogo la brama di vita, dei suoi piaceri e delle sue corone d’alloro, e al contempo la consapevolezza che «quanto piace al mondo è breve sogno».

Mi ha commosso l’affetto che ho percepito, autentico e non di maniera, se non in alcuni sgradevoli ma inevitabili casi, da tanti amici e sconosciuti. Ammirazione vera, per l’artista e per l’uomo, e dolore vero. Mi ha però fatto sorridere chi lo ha elogiato per la sua modestia. Pazzi e modestia: un ossimoro. Aveva un ego poderoso, era vanitosissimo. Sento nell’orecchio, mentre scrivo queste frasi, la sua voce spazientita: «ma cosa dici!?». Mi difendo: «Son 30 anni che profetizzi che dopo la tua morte avrei scritto di te, in uno dei tuoi ultimi messaggi mi scrivi pax tibi evangelista meus, su, smettila di correggermi le bozze». Sento la sua risata argentina, teatrale, bellissima, e il suo «va bene, va bene». (Oh, come mi manca!). Una delle nostre più recenti conversazioni riguardava proprio il suo magnificente ego. Si adontava, mi diceva:

«Guarda che anche tu non scherzi».
«Infatti la mia non è una critica. Non ho nulla contro la vanità”.
«Ma non sono così vanitoso! Solo un po’, dai!»
«Hai modellato il protagonista del tuo ultimo romanzo in tutto e per tutto su te stesso».
«E allora? Che c’è di male?»
«Il protagonista del tuo ultimo romanzo è Dio!» (E di nuovo, la sua ampia, calda risata).

Ho il sospetto che la sua innegabile vanità non abbia mai intralciato l’affetto che io e tanti altri abbiamo avuto per lui, perché s’accompagnava a una generosità altrettanto innegabile. La sua generosità non contraddiceva affatto la sua vanità: erano parti integranti del suo mirabile, misterioso, eccentrico cuore: in fondo anche Dio è infinitamente vanitoso e generoso. Il suo ego non diventava mai egoismo e la sua disponibilità nei confronti degli altri non si limitava a un gesto di cortesia. Si spendeva molto. La nostra amicizia nacque così: fu lui a realizzare il mio sogno giovanile di pubblicare un libro. Ma la mia gratitudine, pur infinita, non mi farebbe sentire il vuoto che sento ora se il mio mentore, editor, genio della lampada anno dopo anno non si fosse trasformato nel mio amico Bob – o Robertopazzi, come mi piaceva chiamarlo. Che mi portava in giro per Ferrara raccontandomela come fosse una donna viva, la Storia, gli aneddoti, i bassorilievi, e poi al ristorante dalla Gigina – quanti felici pasti dalla Gigina! Il mio amico Bob e io a vagabondare per Venezia, inebriandoci di bàcaro in bàcaro, perdendoci all’Arsenale, allegri come bambini che hanno tutto il tempo del mondo. Bob che mi raccontava di lui, fresco autore di Cercando l’Imperatore, sul divano ad ascoltare le confidenze di Moravia, del viaggio in Transiberiana, dell’invito al Cairo o in Corea per l’ennesima traduzione dei suoi romanzi, che mi diceva delle sue emozioni e delle sue amarezze, dei suoi amori e dei suoi amici, delle sue vittorie, delle sue sconfitte. Bob che mi ascoltava.

Rischio di diventare sentimentale, è quello che volevo evitare. Né vorrei essere celebrativo, eppure adesso mi piacerebbe dirgli: sono orgoglioso di te. Come lo sono stato quando all’alba del secolo sono arrivato negli Stati Uniti, sono entrato nella libreria Barnes&Noble, e ho trovato solo tre italiani: Calvino, Eco, Pazzi. Ogni tanto si lamentava di non essere abbastanza considerato in patria; gli dicevo, ma anche se fosse (e non era), che t’importa? I tuoi romanzi e la tua poesia sono tradotti in 26 lingue! E non da scalcagnate tipografie al confine col Messico (ben vengano anche loro, per carità) ma da Knopf negli Stati Uniti, da Seix Barral in Spagna, da Grasset in Francia, e via dicendo. Sono orgoglioso di te perché sei sempre stato fedele al tuo cognome. Ti hanno spesso accostato a Calvino per l’intelligenza galoppante verso le lande della fantasia, ma l’intelligenza di Calvino l’ho sempre avvertita fredda e calcolata, Calvino non sbagliava una mossa, non sbagliava un libro, ma gli mancava la pazzia, la tua intelligenza invece era viscerale, setacciavi le lande della fantasia senza calcoli, senza paura di sbagliare, e sbagliavi talora, ma eri tu, con la tua idea di un’arte antidemocratica, regale, anacronistica. Sono orgoglioso di te perché magari ti lamentavi per una critica a un tuo libro, ma non ti sei mai lamentato della tua malattia. «Sto maluccio» mi dicesti in un messaggio vocale a fine agosto «ma di fisico, perché la testa va perfettamente» e con entusiasmo cominciavi a raccontarmi dei nuovi progetti, le lezioni di scrittura creativa, una serie di interviste che t’avrei fatto per catturare e conservare la tua enciclopedica, scintillante sapienza letteraria e storica, il nuovo romanzo (La doppia vista) che m’avevi mandato in PDF: «ma non l’hai ancora letto? Ah, beato te!» – risata, la tua ultima risata che ascolto e riascolto, nella solitudine fredda di questa stanza. Ti voglio bene.

Emanuele Pettener

 
 
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