Speciale Roberto Pazzi: Un giorno senza sera


La Redazione di Laboratori Poesia saluta e omaggia il poeta Roberto Pazzi con uno speciale a cura di Federico Migliorati che durerà l’intera settimana. Perché il significato non solo di un poeta, ma di un uomo, sono le parole che lascia, e che continuiamo a leggere.

 

Se c’è una cifra, la più significativa, dell’esperienza poetica di Roberto Pazzi, scomparso nella sua Ferrara sabato 2 dicembre all’età di 77 anni, questa è intimamente connessa con il fascino in lui rivestito dalla parola, di un dire sempre capace di enucleare il senso di un’esistenza spesso in balìa di una dimensione fantastica e visionaria dove oggetti, luoghi, persone sfumano nell’indistinto spazio-tempo solleticando l’inconscio. «Scoperto» da Vittorio Sereni alla fine degli anni Sessanta (celebre l’espressione «un fragile capolavoro» attribuito a una delle sue brevi composizioni) e da questi apprezzato anche come narratore di cui riuscì a «intravedere» il successo di Cercando l’Imperatore (Marietti, 1985, la cui nuova edizione apparirà all’inizio del 2024), Pazzi ha attraversato oltre mezzo secolo nel mondo dei versi ottenendo premi e riconoscimenti copiosi, basti pensare al Montale o al Lerici-Pea.

Egli si è calato nella realtà del suo tempo muovendo da quello che nell’epistolario di Minerva Edizioni del 2018 Come nasce un poeta egli definì quale «grumo di espressività» che ne ha contrassegnato i primi lavori già con la raccolta L’esperienza anteriore datata 1973 a cui ne seguiranno altre otto fino all’ultima, Un giorno senza sera, apparsa per La nave di Teseo nel 2019 con un saggio di Alberto Bertoni.

Al centro della produzione c’è Ferrara, «città del silenzio» e metafisica, di Ariosto e di Tasso, di Boiardo e di Bassani, ch’egli considerava il suo buen retiro, anzi, come la camera da letto: «La sento profondamente mia». Dal capoluogo estense, a differenza d’altri protagonisti della cultura del Novecento, Pazzi non si allontanò mai, pur avendo origini liguri, forse perché in fondo amava lo scenografico teatro di questo piatto, orizzontale mondo padano che nelle nebbie invernali annulla i contorni e disfa l’orizzonte aiutando la creazione di nuovi mondi e di visioni, come poi dimostrerà soprattutto nella sua vasta creazione letteraria da romanziere. E, parallelamente, Bocca di Magra, l’altro «cuore» geografico della sua vita, con la «verticalità» ligure e il «posto di vacanza» che larga parte di letterati dagli anni Trenta in poi scelse come ameno luogo di riposo e di quiete: qui egli trascorse gli anni della sua infanzia e adolescenza (ritornandovi a più riprese per ritemprarsi) che tralucono nelle poesie anche in tarda età, condensati con fervore negli juvenilia in cui protagonisti sono soprattutto i pescatori e la gente del luogo.

Roberto Pazzi fotografato da Federico Migliorati nella sua casa a Ferrara

Con una solida formazione classica e una altrettanto consistente preparazione sulla contemporaneità (si pensi alla laurea conseguita negli effervescenti anni Sessanta in Estetica sulla poetica di Umberto Saba con relatore Luciano Anceschi), il poeta ferrarese ha saputo unire autobiografia e tensione verso la storia, la penetrazione nei territori del mito e gli accadimenti della quotidianità mantenendo sempre una coerenza stilistica e contenutistica di fondo. Così, se negli esordi il suo è un verso maggiormente contrassegnato dalla prosaicità, da una scrittura proteiforme e ibrida dovuta a un «grumo di espressività» che necessitava di fuoriuscire materico, denso, intenso, nel corso del tempo tutto tende ad «asciugarsi», a battere territori metricamente più ritmati, a farsi maggiormente evanescente, in cerca dell’ineffabile. L’anima e il corpo, il presente e l’atemporale, l’innamoramento e lo straniamento, il presentimento della vecchiaia e della morte, «il santo silenzio» creatore, il dialogo con l’Altro e il misticismo, il sonno quale «lingua dimenticata», l’amore e l’eros nelle sue varie forme e accezioni e le presenze del passato, la vita quale «continuo esame» riemergono nei flutti della coscienza scandendo una produzione fervida e ardente tentata talvolta dall’apologo, meno aperta rispetto alla narrativa all’esperienza simbolista.

Era e si teneva lontano, alieno al mondo della politica e delle ideologie Pazzi, in ciò imitando l’esempio del Maestro Sereni che propugnava la scelta non di contestare bensì di «lasciarsi contestare» e di mantenersi equidistante dagli agoni partitici. E sempre, su tutto, la ricerca di una parola di peso, valoriale, assoluta: in tempi di proliferazione verbale, di una moderna «peste del linguaggio», per dirla con Italo Calvino, tra infodemia e nullificazione del significato, ecco che l’intellettuale ferrarese ha arricchito la sua poesia senza soluzione di continuità, l’ha plasmata fondendovi esperienza, immaginazione e conoscenza, in ciò contrastando l’impoverimento della comunicazione che ci assedia. Seguiva, dunque, una sorta di daimon interiore arrivando a parlare di «ossessione per la parola», memore del Fedro di Platone in cui si argomentava anche della follia poetica.

Come in Sereni anche per Pazzi è certo: la poesia, quella vera, quella che vive per sé stessa, è destinata alla clandestinità, «e non sarà del tutto un male». Sarebbe tuttavia limitativo e riduttivo attingere nel suo caso a un’unica derivazione, a un’unica «generazione» di maestri quali miti fondanti: come in più occasioni egli stesso esplicitò, gli autori contemporanei hanno certamente inciso nel suo percorso iniziatico ma sicuro rilievo hanno avuto altresì i lirici greci come i classici russi fino ad arrivare a Shakespeare e ai suoi sonetti: ecco, dunque, la dicotomia, la verace poesia di Pazzi che si orienta tra passato e presente in ciò inferendo l’importanza di una costruzione che non è mai banale e scontato autobiografismo bensì sguardo in sé e fuori di sé per conoscere l’altro e il mondo e così facendo creare un nuovo mondo, una nuova idea di esso. La scrittura come strumento, l’unico, per esorcizzare la paura di sparire e, dunque, adatto a lasciare una traccia, a segnare un’impronta: a essa Pazzi è sempre ricorso, con generosità e talvolta affanno e con quell’urgenza incanalata fin da giovanissimo verso territori alti e solenni, come si confà a uno degli ultimi maestri del nostro tempo.

Federico Migliorati

 
 
 
 
L’altra
 
È entrato in un altro mattino
un treno fischiando.
Si è sentito per tutta la città
Il ricordo dell’altra,
lontana molto lontana di qua
dove le navi forse arrivano
e la sirena innalza la gloria
della loro lentezza
come qui non sarebbe mai.
 
(da L’esperienza anteriore, I Dispari, 1973)
 
 
 
 
 
 
Il sonno
 
In nessun luogo si dorme,
senza fine e senza inizio
è il sonno.
La lingua dimenticata
che si parla nelle sue isole
pare un dialetto appena più povero
di quello del continente,
l’idioma che si può scrivere
e non pronunciare
morto alle filastrocche dei bambini
alle sentenze dei vecchi,
per un’età di passaggio.
Come parlano i pesci
a colpi di pinne,
a fitte di memoria
così è la conversazione cimmeria
nelle sale del sonno.
 
(da Calma di vento, Garzanti, 1987)
 
 
 
 
 
 
Le finestre finte
 
“Tanto ci vedremo ancora…”
Ti credo, ma quando?
Se non sapessimo invece
che era l’ultima volta
non avremmo la forza di mentire
da una finestra finta senza luce,
come quelle disegnate
sulle case che mi facevano stare
col naso per aria da bambino,
a spiare quando s’aprivano.
Bussano le prime voci
alle cieche finestre,
ci hai dimenticato,
promesse d’amore vantano primati
di giovinezza, letti di fedeltà…
inutile difendersi,
nell’amnesia non c’è più posto,
l’assenza era sì un vasto albergo
ma le stanze a poco a poco son state tutte occupate,
sottoscala e abbaini son pieni di nomi,
manca solo il mio,
e al sole le finestre s’apriranno.
 
(da Le rotte della mente. Ventisei poesie inedite 2013-2019, in Un giorno senza sera, La nave di Teseo, 2019)
 
 
 
 
 
 
Santità della noia
 
Santità della noia
che m’accompagna
lungo i margini vecchi dei varchi
dove potrei fuggirne
ma non cedo,
resisto ormai da troppi anni
e manca così poco
alla grande uscita,
sento già la corsa dei passi
all’ultima curva,
la svolta che sarà in mare aperto.
Sono grato agli dèi
se m’anticipano la giovane loro eternità.
 
(Inedito)
 
 
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