Speciale Maurizio Cucchi: o dell’insoddisfazione persistente

Prende banco in questi giorni una polemica sul “cucchismo” che nasce da quel che è, a tutti gli effetti, una buona campagna promozionale per la rivista “L’Anello critico”. Gianfranco Lauretano pubblica su Pangea “un’anticipazione di un più lungo saggio che comparirà nel prossimo L’Anello Critico” (CartaCanta editore) dal titolo “Contro Maurizio Cucchi, il poeta che ha imposto uno stile e un canone di cucchisti” (QUI). Nulla di strano, anzi un’ottima idea in un periodo in cui le riviste tentano di ridisegnare il panorama della critica letteraria spostandolo dal web ma non dimenticandolo, anzi approfittando delle potenzialità di ambedue i media. Lo stiamo facendo tutti (alcuni riuscendo, altri affondando). Noi con “Laboratori critici”, rivista semestrale di poesia e percorsi letterari che nasce nel 2021 dalla bella testa di Matteo Bianchi, non di rado facciamo lo stesso (oltre ad aver molto puntato su collaborazioni ed eventi come Pordenonelegge, Salone del Libro di Torino, Elba Book Festival, Ritratti di Poesia, Poesia Festival). “L’anello critico”, nato nel 2023 con il primo numero che fa riferimento all’anno precedente, punta invece a riesumare il concetto di “Annuario di Poesia” che in passato tanto è stato usato e abusato. E lo fa bene, Lauretano stesso è persona intelligente e avveduta che l’anno scorso molto si è fatto stimare per alcune forti prese di posizione pubbliche.

Al netto del titolo classicamente pangeiano, “Contro Maurizio Cucchi, il poeta che ha imposto uno stile e un canone di cucchisti”, la questione iniziale è la necessità o meno di progetti come Nuovi poeti italiani di Einaudi che, al numero 7 uscito nel 2023, ha stupito. Nel panorama dei nomi “che ci si sarebbe potuto aspettare” Cucchi ha rimescolato le carte (per alcuni scompaginato, ma come in parte ha fatto anche Franco Buffoni & Redazione nel Sedicesimo Quaderno di Poesia Contemporanea edito da Marcos Y Marcos sempre l’anno scorso). Ma il 23, come dice Lauretano, è anche “l’annus horribilis delle antologie”. Su tutte l’operazione di Tommaso Di Dio con Il Saggiatore che, in Poesie dell’Italia contemporanea 1971-2021 (e da qui il bel concetto di rete che piace tanto a “Laboratori critici”, dedicando il numero di novembre scorso alle mappature della poesia contemporanea con un pezzo molto particolare di Di Dio, poi ripubblicato su Nazione Indiana – QUI – ma si legga anche l’intervista fatta al curatore da Roberto Cescon su pordenoneleggepoesia.it – QUI), volente o nolente si posiziona per importanza accanto a Parola plurale (Luca Sossella Editore, 2005) con il suo metodo, o consapevole non metodo, che semplicemente dichiara quel che tutti sappiamo da tempo sull’impossibilità di definire un canone e dei confini precisi (a questo proposito si legga, sempre di Di Dio, Tutto purché funzioni – appunti intorno ad alcuni libri di poesia di autori nati negli anni ‘90, pubblicato prima su “Laboratori critici” di maggio 2022 e poi su pordenoneleggepoesia.it – QUI), da un altro punto di vista riflettendo il concetto di abbattimento dell’io e dell’importanza autoriale che tanto dà fastidio al mare magnum del “popolo dei poeti” (con grande affetto ricordo un piccolo esperimento editoriale se non erro di Anila Resuli, oggi fotografa, che molti anni or sono ha tentato la pubblicazione di libri dove il nome dell’autore veniva deliberatamente omesso, ma anche le copertine di Pietre Vive Editore che per la maggior parte delle volte continuano ad avere solo il titolo dell’opera – alla fine il modello che ha vinto è quello dell’amico Interno Poesia, con la foto dell’autore in copertina).

Tornando a Lauretano quel che emerge è la dichiarazione di un percorso “cucchiano” che ha creato epigoni più o meno clonati “cancellando le tracce della tradizione attraverso la sua attività editoriale” (salvo poche righe dopo affermare che “nell’importanza dell’operatore, dunque, sta la giustificazione della lettura della sua antologia, fatta, però, ricercando in essa i poeti che si allontanano dal Canone Unico, per mantenere un rapporto con la tradizione del Novecento, autori che non sono mai mancati, occorre riconoscerlo, nelle scelte di Cucchi, non so se per nobiltà o per calcolo”). Lauretano infatti riconosce un merito oggi non più presente (impossibile?): “La generazione di Cucchi ha un grande merito, quella di attestarsi reciprocamente, a vari gradi ovviamente, e mantenendo i distinguo. Ma ha saputo instaurare quella solidarietà generazionale di cui i successivi, tutti cani sciolti, non sono stati capaci”.

Una risposta viene da Andrea Temporelli nel suo sito:

Nel ragionamento, infatti, mi pare si perdano di vista, per colpire il bersaglio grosso, alcuni obiettivi che dipendono direttamente da noi. Cucchi rischia di diventare non solo un’icona, ma un comodo alibi. […] Che Cucchi sia “uomo di potere”, dicevamo, è un dato di fatto. La sua autorità è autorevole? Merita questa centralità editoriale? Non è questo il punto. In virtù del suo potere, dovrebbe dare visibilità non soltanto alla sua “linea poetica” ma a tutte le tendenze in atto? Sarebbe auspicabile, ma Cucchi (lo spiega anche Lauretano) è in realtà un poeta e non un critico. Non è, e non può essere (posto che lui abbia mai desiderato di esserlo) super partes. Dunque, non è nemmeno questo il punto. […] Non è colpa di Cucchi se, a livello orizzontale, i vari orientamenti poetici non hanno saputo confrontarsi in modo “sano”. Ecco, torno su questo aggettivo. Che cos’è un confronto sano? È il confronto che non delegittima l’avversario. […] I presunti figli non sono mai cresciuti, non hanno mai attraversato la propria adolescenza, forse non sono entrati nell’età adulta. Se ci sono arrivati, hanno seguito cordate già predisposte. Hanno scelto i padri a loro congeniali, hanno stretto alleanza con i simili. E adesso gestiscono come possono l’eredità accumulata. Il risultato, è solo un costante piagnisteo di sottofondo. Tutti a lamentarsi perché non hanno ottenuto, a quaranta, cinquanta o anche sessant’anni, il prestigio che speravano. E adesso annusano il pericolo di una rimozione operata non dalle generazioni precedenti, ma da quelle a venire, giacché nel frattempo il mondo è cambiato e le forme della tradizione, se di tradizione ancora si può parlare, non sono più così lineari”.

Posto che il potere non è mai dove si crede, ma dove non si vede, di fronte a Lauretano e Temporelli le domande che mi sorgono sono le seguenti:

  • quanto un poeta o critico o curatore di collane oggi “impone” e quanto “conduce”?
  • è veramente possibile “cancellare le tracce della tradizione”?

Facendo un discorso al contrario, ovvero non cercando risposte ma restando nell’ambito di ciò che ha provocato le domande, mi verrebbe da sottolineare quanto l’insoddisfazione persistente (da cui il titolo di questo intervento) e dilagante sia in realtà l’unico vero punto della questione (e che da ragione a Temporelli). Tutti a criticare Einaudi (o chi per lei) quando fa delle scelte su temi in linea con la cronaca attuale perché troppo smaccatamente commerciali. O Crocetti nelle ultime operazioni antologiche per il medesimo motivo (al netto di due uscite straordinarie degli ultimi mesi: Dylan Thomas e Mahmud Darwish). Allo stesso modo tutti a criticare un curatore che fa delle scelte evidentemente non commerciali.

Foto di Dino Ignani

La questione reale è che l’insoddisfazione generale sul versante editoria major deriva dal bisogno di esserci e dalla presunzione di dover esserci (atteggiamento che riscontro spesso purtroppo). Motivo per cui qualunque scelta venga fatta è sempre e comunque recepita come sbagliata, non accettabile. Dimenticando come è finito il palco di Castel Porziano (che cito sempre più spesso perché sempre più attuale e monito dimenticato). Ma ancor più grave trovo l’errore di affermare che esista una “imposizione” e non una “conduzione. Cucchi sta imponendo un modello attraverso le pubblicazioni su Mondadori ed Einaudi? Assolutamente no, perché questo vorrebbe dire eliminare il 90% di un’Editoria italiana più o meno indipendente, più o meno militante, che non di rado fa anche scelte commerciali pur di sopravvivere ma che assicura una biodiversità importante. È veramente possibile cancellare la tradizione? Si se lo si vuole. No se non lo si vuole. Non abbiamo bruciato i libri in piazza e una decina (o anche ventina, esageriamo) di pubblicazioni dell’editoria major all’anno oggi come oggi non danno certo un indirizzo alla poesia italiana contemporanea. O meglio, lo danno nel momento in cui la priorità non è più l’opera ma la collocazione del nome.

Perché la questione ora diventa quale sia la priorità dell’autore. Posizionarsi in una collocazione che dia valore o creare valore? Il “cucchismo” esiste solo in virtù dell’autore che vuole crearlo, non del curatore Cucchi, al netto di epigoni comprensibili che a loro volta non sono “cucchisti” ma figli di un’idea che hanno deliberatamente abbracciato (si veda ad esempio Nel concerto del tempo di Marco Pelliccioli, appena uscito per Mondadori – una nostra recensione QUI). Se poi tu autore scegli di assumere questo ipotetico “cucchismo” perché il tuo obiettivo è la pubblicazione major, quindi vuoi blandire il curatore di turno, temo questo sia un percorso e una scelta che prescindono da Cucchi stesso (che, tra l’altro, in Stampa2009, a suo stesso dire la sua perla, fa un’operazione palesemente non “cucchista”). Se poi il tuo problema è che non vieni scelto, e vedi autori che consideri inferiori a te pubblicati lì dove tu vorresti apparire, anche in questo caso il problema non è il Cucchi di turno ma il fatto che non ha scelto te (e ci siamo passati praticamente tutti). Non stai realmente criticando le sue scelte ma il fatto di avere un’opinione diversa dalla tua. La qual cosa è paradossalmente ciò che fa sentire te diverso, una identità precisa e di valore, cioè l’avere un’opinione diversa dalla sua.

Il tema è molto più ampio e complesso ma si basa su un contesto parcellizzato e nebuloso che è diventato tale per questa finta democrazia alla Non è la Rai (ne cito uno a caso, ma potrebbe essere qualunque altro programma o talk show dove chiunque, ragazzini compresi, ha un’opinione su tutto), dove tutti pretendono di avere un ruolo, di avere riconoscimento, e dove l’obiettivo è diventato solo quello. E per giustificarlo (bravo Temporelli che lo dice) ci si inventa questa buffa parola che è “cucchismo”. Non resta quindi che aspettare il prossimo numero de “L’anello critico” facendo un plauso a Lauretano, che leggeremo con attenzione, e al quale eventualmente risponderemo su “Laboratori critici”.

Alessandro Canzian