Nel concerto del tempo – Marco Pelliccioli

Scrivere è un modo di rispondere alla vita. Abbiamo sempre bisogno di rispondere a un dono con un altro dono, di certo non per sdebitarci, ma per continuare a donare e a ricevere, senza fine. È quanto di più luminoso si percepisce Nel concerto del tempo (Mondadori, Lo Specchio, 2024), ultima fatica letteraria di Marco Pelliccioli proposta per i tipi Mondadori nella collana de Lo Specchio. Il tessuto poetico della raccolta si dipana in sei sezioni: Il muro è caduto, 1950-1970, 2020, Nel concerto del tempo, Il sogno del pesce gatto, Nell’aria leggera.

Nel fluire del ritmo che obbedisce alla narrazione, pur con un linguaggio variegato, l’autore si abbandona alla prosa poetica che riecheggia il suono del fiume Lambro a lui caro. Si avvicendano così, le memorie del passato in una visione di un mondo incontaminato di persone, di sentimenti semplici e puri raccontati, in alcuni versi, anche con la lingua di pancia, cioè a dire l’idioma lombardo dove: «La porta del Diàol» coincide con le albe del riposo eterno: «Un viaggio, un sogno, o forse una visione. / Rastrellavo i granelli di un muro ormai in frantumi. Bussole / e clessidre erano guaste. Così le cantine, i sottotetti, le oasi / urbane, le foglie. / Restavo io, controfigura assente, a proferire gli accadimenti». L’autore così, si fa voce fuori campo, malinconica, di un lavoro che ammazza di fatica ma dà forza all’animo: «Qui pesavano il lino / ora non lo pesano più / ma le tegole spioventi / nella foschia d’inverno / le mura screpolate / tra i portici di legno / e più in là, nella parete grezza, / lo squarcio, i sassi, / la radica che sale, / invertono le topografie / il muschio, nell’ombra, / cresce più dei fiori».

Ma, qualcosa di straordinario accade, a sparire è un mondo intero. All’armonia di uno scenario rurale incontaminato fa da contraltare il progresso che cancella quella comunità genuina, Pelliccioli, come Lazzaro felice nel film di Alice Rohrwacher focalizza lo sguardo su: «@CLIO, l’account di Martina, una ragazza di 22 anni, mora, occhi azzurri, magra e ben curata» e su: «Uno smartphone quattro luci / prodotti da make-up qualche minima / istruzione e tutto poi diventa / spettacolo da star: / il fare colazione il filo / interdentale cosa cucinare portare a spasso / il cane, per ritornare lì / con luci da make-up / a rendere il mio show / nuova esclusività: / “diventa come me / avrai un mucchio di fan”».

Si avverte, un contro rumore al rumore del mondo, un ritmo bipolare di un concerto che sprofonda nella parola silenzio, quando il tempo degli eventi passati vicini al vissuto diventa il tempo di ciò che accade ed è la durata della storia e dei suoi risvolti culturali, sociali e antropologici, come la caduta del muro di Berlino, il crollo delle torri gemelle dell’11 settembre 2001, le proteste delle donne iraniane a Milano per l’uccisione di Mahsa Amini, il ricordo straziante del ritrovamento del corpicino di Alan Kurdi sulla spiaggia di Bodrum in Turchia, il 3 settembre 2015: «Ricordo che girai subito la pagina: / il corpo immobile grondava acqua / premeva sulla sabbia, le scarpe / la maglietta rossa. / Crollai nella mia sedia / inerme, nell’open space che sorrideva / per le nuove / cialde del caffè».

L’autore ci invita a riflettere su un lungo sfregarsi dell’anima sulla carne, il semplice fatto di vivere qualche manciata di anni, non induce a pensare che l’uomo sia naturalmente buono, ma ciascuno cerca di uccidere l’altro, e dunque, la visione di una vita come tremenda e magnifica. Ma anche, come accesso in un mondo onirico, surreale, una galleria fatta di creature marine, come il chirocefalo, il pesce gatto, insetti variopinti; creature vegetali, come la gardenia, la magnolia e poi creature umane: lo storpio, Nunzia, l’Angiolina, Alberto, Tore e, soprattutto, il non scordare nulla del passato e del dolore, anzi, vederne sorgere altro ed essere capace di guardare l’altra faccia.

Ma in fondo, la narrazione poetica ci riporta ogni volta a tuffare le mani nel fiume, a guardare la varietà di oggetti che ci porta, ad ascoltare l’andamento della sua acqua che scorre silenziosa che influenza gli umori dei suoi abitanti, a vivere, insomma, come il pesce gatto, sott’acqua, imprigionato nella melma del fiume, a resistere a tutte le correnti e ad essere cauto, a cibarsi dei detriti e, al momento giusto, salire a galla a sognare o addirittura a volare: «Il campanile scioglie i suoi contorni / nel trillo del cammello che va per il mercato / (mentre il pesce gatto vola via con te…)».

Nella raccolta si sentono gli echi delle voci maestre del giovane poeta meneghino, come quella di Maurizio Cucchi, Cesare Pavese con la sua vena malinconica, le riflessioni e gli interrogativi luziani, la vena tragica di Milo de Angelis. L’autore sa, però, che solo la leggerezza della vita può cacciare l’insondabile malinconia e che questa è sempre dalla parte dell’amore, risiede nella purezza e nella chiarezza del cuore: «occorre / liberarsi, lasciare che la terra torni a respirare». L’amore, come la morte, semplifica, e dunque, per Pelliccioli il vero nome dell’amore è la semplicità è: «La vita nascosta tra le foglie / nell’acqua il vento la terra…» è la bianca magnolia ostinata che fiorisce di nuovo e sempre più alta: «[…] lontano dal male che batte nel vento» è il pensiero che va all’Angiolina: «Nell’ora del trapasso / sono io l’ultimo sguardo / lei le mani storte / che ora vanno chissà dove / mi chiedo, con dignità, / io credo, e se piango / è solo per amarti, spalancare / la porta del frutteto / la polpa della mela / che ancora grattugiavi» è il sentimento di tutti i morti che appartengono alla famiglia, il restare nonostante: «L’andare sbagliato di noi» perché: «Con l’arrivo dell’azzurro / si diradano le visite nel reparto verde. / io resto, amore, / come radici che non sanno / abitare altrove».

Anita Piscazzi

 
 
 
 
La vita che ignori
 
le foglie cadute sul prato
rilucono gialle, o roseoarancioni,
prima che il sole scompaia
nel vuoto; nascondono, sai,
la vita che ignori
mentre cammini di corsa al tuo treno
creature che, lente,
si amalgamano al passo della stagione
ne seguono il fiato, il battito, i giorni
senza scordare il vento che scuote
le chiuse persiane
i vivi mai morti, i morti non più.
 
 
 
 
 
 
La gardenia
I

sembrava morta la gardenia, crollata, appassita dopo la grande, immensa fioritura.
sembrava morta, nessuno ne comprendeva le ragioni, la gardenia bella, bianca come il sole delicato alla finestra, nel vaso in vimini modesto dove nessuno avrebbe mai scommesso una tale fioritura.
eppure le barelle le sirene le pareti i neon che lampeggiano dovunque le gocce nella vena gli abiti scomposti la voce gli occhi il volto che non risponde più.
sembrava morta, i figli nella casa a chiedersi perché.
una mattina, invece, le dita a sorreggere lo stelo, l’alba delicata alla finestra, si è riaperta al cielo commossa la gardenia.

 
 
 
 
 
E andiamo così,
tu avanti, io dietro,
nell’aria leggera
che scorre sul Lambro
e, forse, chissà, domani già io
sarò lì davanti, e dietro poi tu
a tenermi per mano
ma adesso che batte
questo poco di sole
e l’aria d’inverno
sembra di primavera, corriamo
al mio tre
insieme nel prato.