Sempre mondo – Massimo Gezzi


Sempre mondo, Massimo Gezzi (Marcos Y Marcos, 2022).

Di Sempre mondo di Massimo Gezzi noi di Laboratori Poesia abbiamo già brevemente parlato nei Consigli di lettura di fine 2022. Libro che trae il suo titolo da Rilke (Immer ist es Welt / und niemals Nirgendsè sempre mondo / e mai un nessun luogo) e che da idealmente modo di continuare una discussione nata nel 2018, sempre qui su Laboratori Poesia, attorno alla recensione di La linea del cielo di Franco Buffoni.

Se in Franco infatti l’io era una somma di accaduti, di storia e di storie da un punto di vista collettivo, non personale, in Gezzi l’io coincide con l’alterità stessa, l’io è l’altro. A partire da un proemio significativamente intitolato Per chi dove c’è un punto di intersezione che lega / lo spazio percorso e il tempo dimenticato (e a breve parleremo proprio di spazio ai martedìpoesia di Pordenonelegge). Di questa poesia, posta all’inizio dell’opera ma anche all’esterno di essa, introduzione poetica di diverse stazioni di passaggio (concetto che abbiamo ritrovato anche nell’ultimo di Villalta, che pure tratta fortemente il concetto di io traslandolo nel tu) restano le direzioni, si distinguono / gli sbagli, le deviazioni, soprattutto / gli errori fondamentali senza i quali / nulla esisterebbe in questa stanza / e anche in quella in cui adesso siedi tu. Fino ad arrivare a una sorta di dichiarazione d’alterità che s’interroga sullo spazio che intercorre, che definisce: Nient’altro: ma qualcosa / che resiste, che si ostina / a tingere di peso e di colori / questo mondo, hai visto in quelle ali, / qualcosa che si oppone a chi dice / che in fondo non è nulla, non importa, / che tutto sarebbe uguale se quel volo / non fosse mai comparso o non potesse / rapparire mai più.

Nessuna risposta in questo sempre mondo, ma diverse domande che si pone l’autore quanto la figlia (“Siamo poveri?, mi chiede. / “No, non lo siamo”). Figlia che assieme agli studenti all’interno dell’esperienza (la professione di Gezzi) di insegnante raccontano il mondo attraverso i loro occhi nella prima sezione intitolata Un’educazione sentimentale. Qui c’è la cura, l’istinto di protezione che dal genitore si proietta nelle ingiustizie scolastiche di un’istituzione non di rado ipocrita. Che riflette, giocoforza, l’ipocrisia vestita di purismo e giustizia della società in cui viviamo. Segue la sezione Cronaca nera che senza sconti affonda in storie altrui di solitudine e tragedia. Dall’esergo di Volponi (La cronaca nera è una parte della vita di tutti, […] una parte in termini di resposabilità morale, civile) appaiono suicidi, gommoni, un maliano di vent’anni senza nome, / se anche il nome è un privilegio / da difendere, a volte. […] E infatti un minuto dopo / il pubblico pudore ha protestato / e le ha fatte cancellare, perché assistere / a un falò di carne umana è inammissibile, / osceno, Blessing Matthew, un Mark dove si ricorda che Le frontiere uccidono, la pandemia.

La terza sezione1 riporta invece Quattro lettere di Paul Signac a Émile Verhaeren di cui si spiega meglio in nota:

Quattro lettere di Paul Signac a Émile Verhaeren: un altro nome di Émile Verhaeren è Antonio Santori (1961-2007). Suite nata nel 2017 in seguito alla visita di una mostra luganese di Paul Signac, e dall’anniversario della morte di Santori. Signac e Verhaeren erano amici, ma questa corrispondenza non esiste.

Qui l’alterità è un rapporto epistolare che necessita del lettore distante, con riflessioni non di rado amare: La barra del timone punta sempre / verso te, in questi giorni d’acque morte. / E di speranze, Émile, di entusiasmi / condivisi. Morti pure loro, malgrado / siamo qui, Jeanne e io, sulle rive / di un’Europa che si sgretola e non sa / che cosa diventare: un’ipotesi di futuro / o la sua esatta negazione. Jeanne è Jeanne Selmershein-Desgrange, pittrice con cui visse Paul Signac. Appare anche la loro figlia, Ginette, che fa eco alle precedenti sezioni giocando a nascondersi, al mattino, / e mentre sto a guardarla, come ieri, oggi giunge la notizia incredibile. / C’è scritto, sul giornale, che un convoglio / ha travolto Émile Verhaeren, / alla stazione di Rouen. Difficile non tornare con la mente ad alcuni versi delle pagine precedenti: Che parole userei se fosse vero? / Se questa fosse l’ultima mattina / da dividere e una strage, / una sciagura della storia / ci obbligasse a salutarci in un istante, / come ad altri sta accadendo proprio adesso?

Perché l’attenzione all’altro, in quel grumo di tempo che vi intercorre, in quello spazio di incertezza, / che battono i rintocchi e lo spessore, / del vuoto diventa pagina da ricoprire, è anche il rischio della perdita. Anch’io vi sussurro con il fiato / della notte, intreccio la mia ansia / alla vostra presenza e sono certo, / un’altra volta, di esistere ancora sono versi che come i precedenti si leggono a inizio opera, ma che in questa terza sezione spiegano la preghiera finale: Émile, dimmi che non sei / caduto pure tu, che la tua voce / saprà ancora trovare le parole / per vincere l’orrore. Ti proibisco / di non esserci, rispondimi, tuo / Paul.

L’ultima sezione si intitola Basta il tempo e raccoglie in maniera più ampia testi diversi. Un puzzle tra twitter, instagram, figure abbozzate in piccoli ritratti come Fausto, Mario, Giovanni, e alcune figure di animali che come si è detto affrontano in maniera maggiormente diretta la questione dell’alterità. Che qui si lega al grande problema del tempo che passa, di una possibilità di decidere che continuamente sfuma nell’irrimediabilmente accaduto: Posale sul tavolo. Spegni tutte le luci. / Nel rumore delle auto che rincasano senti / che nessuno decide, tu per primo, / cosa sei stato. Ma anche: Ma se sono sconfitte perlomeno / fanno polvere, rovinano: se li apri / a decenni di distanza certi armadi / dischiudono tesori. / Basta il tempo per rendere infinita / la storia trascurabile di ognuno. / Che ovvia e insopportabile sciocchezza: / basta il tempo.

La chiusa dell’ultima sezione e del libro ricorda idealmente (o almeno a chi scrive) che l’autore è ancora in una stanza dove (all’inizio) nulla esisterebbe in questa stanza / e anche in quella in cui adesso siedi tu, e dove (alla fine) il primo cenno di luce / negli occhi porta pure / un ronzio, un motore che si accende / e mette gente nella nuova / mattina che comincia – / di nuovo tentano gli altri / di esistere, di affrancarsi dal silenzio, / mentre tirano su una tapparella.

Anche l’auspicio finale si ricollega ai versi iniziali in queste stazioni d’umanità che tendono all’altro per esistere, riconoscersi e interrogarsi (cosa molto bella sarebbe un’analisi dei personaggi inseriti nel libro alla luce di una ricorrenza che ho trovato curiosa, ovvero quella del termine sagome). Perché se all’inizio la conclusione del proemio era speriamo, perché quando, se qualcuno / segna un punto o una parola è lì accanto, / in quello spazio di incertezza, / che battono i rintocchi e lo spessore / del vuoto diventa pagina da ricoprire, in chiusa all’ultimo testo leggiamo di nuovo tentano gli altri / di esistere, di affrancarsi dal silenzio, / mentre tirano su una tapparella, / ridono, si urlano rimproveri e dopo / spariscono in un vuoto che speriamo / duri sempre pochissimo.

Bellissima, va detto, la reiterazione a distanza del verbo speriamo.

Alessandro Canzian

 
 
 
 
Per chi
 
C’è un punto di intersezione che lega
lo spazio percorso e il tempo dimenticato.
Quando si sfalda, per una lunga
perturbazione o per il canto
ripetitivo delle cicale, quando il nodo
si rompe accadono le cose,
come una musica che ritorna,
una canzone, e porta il gesto
di due mani mai strette ma da sempre
desiderate. E pomeriggi di fatica,
di ossessioni che intorbidano e stancano
i pensieri, dissolte per un attimo
dal tintinnare della tenda per gli insetti
oppure da una frase attesa a lungo
e infine pronunciata, se la sera
promette l’allegria poi dà il torpore.
In quella intersezione,
dove gli anni si annullano
e sembrano diametri, pellicole,
a volte si indovina il significato
di queste storie, non importa
se le vostre, la mia, quella di un altro,
ma da qui si riconoscono
le direzioni, si distinguono
gli sbagli, le deviazioni, soprattutto
gli errori fondamentali senza i quali
nulla esisterebbe in questa stanza
e anche in quella in cui adesso siedi tu.
Allora li sleghiamo, quei fili,
sbalorditi dalla loro leggerezza,
e li appendiamo alle pareti che ancora
li sosterranno, li diamo in dono ad altri
che verranno e parleranno,
speriamo, perché quando, se qualcuno
segna un punto o una parola è lì accanto,
in quello spazio di incertezza,
che battono i rintocchi e lo spessore
del vuoto diventa pagina da ricoprire.
 
 
 
 
 
 
Non abbandonarci alla tentazione

a Davide L, in memoria

 
… invece di “non indurci”, la formula
che la memoria si ostina a sillabare.
Non abbandonarci, sicuro, perché dio
non può indurre al peccato, al male
o alla perdita di senso.
Però può abbandonarci, come dice
la nuova tiritera e se esistesse
di certo lo farebbe,
se è vero che dovremmo addirittura
implorarlo perché non ci tradisca.
Quel poco che si capta da qua fuori
è tutto qui, mentre un sole fastidioso fa spazio
a una penombra più molesta, trafitta
da gelidi strascichi di vento.
È l’ultimo saluto, c’era scritto,
ma forse è solo il primo di uno scambio
di pensieri che torneranno a te,
che trapassavi gli altri con lo sguardo
verso luoghi remoti che nessuno
sospettava di albergare. Soprattutto,
come potevi a diciotto anni
insegnarci la vita, ci chiediamo
ogni volta che le parole che pronunciamo
sono le tue. E non abbandonarci alla tentazione
di non scorgere più nulla tra le pagine,
gli sguardi, nelle voci o negli insulti
che ogni giorno ci scambiamo,
in queste aule spoglie.
 
 
 
 
 
 
Blessing Matthew
 
Blessing Matthew, un nome come un augurio
che cissà quante volte si è avverato,
prima che sprofondassi nelle acque
della Durance, a ventun anni,
in fuga dai gendarmi di frontiera.
Nella foto sul giornale sei in toga,
in Nigeria, da poco diplomata:
adesso ti ripescano gonfia e svestita
dalle gelide acque di un’Europa
a libertà condizionata.
 
 
 
 
 
 
Il volo di una gazza
 
Distrattamente, mentre aprivi le tapparelle,
il volo di una gazza, laggiù in fondo.
Maestoso più del solito,
quasi al rallentatore, con le ali
bianche e nere spiegate e alla fine
rattrappite, all’approdo su quel ramo.
Nient’altro: ma qualcosa
che resiste, che si ostina
a tingere di peso e di colori
questo mondo, hai visto in quelle ali,
qualcosa che si oppone a chi dice
che in fondo non è nulla, non importa,
che tutto sarebbe uguale se quel volo
non fosse mai comparso o non potesse
riapparire mai più.
 
 
 
 
 
 
Come di notte il male
incrudelisce e poi passa,
o perlomeno lascia spazio
a una speranza di sollievo,
adesso il primo cenno di luce
negli occhi porta pure
un ronzio, un motore che si accende
e mette gente nella nuova
mattina che comincia –
di nuovo tentano gli altri
di esistere, di affrancarsi dal silenzio,
mentre tirano su una tapparella,
ridono, si urlano rimproveri e dopo
spariscono in un vuoto che speriamo
duri sempre pochissimo.

 
 
 
 

1
Mentre scrivo di questa sezione mi torna alla mente un altro bellissimo epistolario che qui però c’entra poco, ma che val bene un consiglio di lettura: Elis island di Silvio Ramat, Mondadori, 2015