Sarebbe grande la storia se fuori ci fosse il nemico – Gisella Blanco

Antonio Fiori suggerisce Gisella Blanco
 
 
 
 
La solitudine del ladro di geografie
 
Assimilo nudità
annusandoti da narici dilatate al bianco,
alla ricerca dei tuoi arbusti venosi impiantati alle mie praterie:
naturale scienza d’alture
-ove è allievo il viso-,
lezione espansa lungo tutto il mio corpo
promesso in giaciglio
se vorrai riposare d’acerbe valli.
Indago l’imponderabilità di materia, mio esclusivo insediamento.
 
Ti cripti nella fragilità sanguigna del mio ventre,
mi disseppellisci con dita furtive:
sono grata d’essermi scardinata,
infranta
a ogni mio sembiante.
 
Ti lascio il percorso insanguinato
che ti condurrà ove non muoio.
 
 
 
 
 
 
Il tuo volto è una città
 
Scogliera di tetti, tempie ripide,
balconi lattiginosi di denti.
La città si abbandona a malinconia di prati su cui nascere nudi
e d’estate abbiamo febbre, fiato scomposto, bocche
che si slargano per vicoli allungati all’iride.
Comignoli accesi bruciano, poco sopra la fronte,
ne sentiamo il colore con travi portanti di pianto.
 
 
 
 
 
 
Integralismo
(Riflessione sul mio integralismo religioso)
 
Giungo all’inchino
verso folle di concili ecumenici all’ora del pasto,
messe in sconosciuti linguaggi, confessionali artigliati,
stigmate d’unghia su sentieri di corpo,
confessioni spassionate alle tre di notte,
devozioni di corde vocali che rigenerano ossa,
comandamenti d’occhi fosforescenti.
 
Le vie dei gatti sono infinite.
 
 
 
 
 
 
Storie epiche
 
Ho un popolo
schermato in battaglia
nel fortino dello sterno.
 
Vorrei scrivere il racconto di sangue
sui reflussi d’ira esofagea:
cinta muraria frantumata in singhiozzi.
 
Sarebbe grande la storia
se fuori ci fosse il nemico.
 
 
 
 

Scrivo questa nota di ritorno da Roma dal premio “Le città delle donne” che ha visto Maria Gloria Fontana (direttrice dell’omonima rivista), Gisella Blanco (vicedirettrice) e il ministro della cultura Dario Franceschini premiare alcune personalità culturali femminili. Alcune importanti personalità come l’editrice Elisabetta Sgarbi, la scrittrice Nadia Terranova, la giornalista Tiziana Ferrario, la scrittrice e conduttrice radiofonica Loredana Lipperini, l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, ma soprattutto la poetessa Luigia Sorrentino pubblicata un paio di mesi fa nella collana Gialla Oro di Samuele Editore-Pordenonelegge.

Scrivo questa nota dopo una cena e una colazione con la Blanco, dove ho avuto modo di conoscerla e osservarla meglio. Di osservare la persona e la poeta dentro la persona. E dopo aver preso atto con rammarico dell’abbandono di Fabio Michieli e di Anna Maria Curci della redazione di Poetarum Silva, sito che noi di Laboratori Poesia abbiamo preso spesso come esempio e come ispirazione.

Scrivo questa nota con l’amarezza di un mondo letterario che da sempre più voce a chi chiede senza leggere, a chi pretende senza aver contezza di sé, o studi reali, in questa finta democrazia delle lettere che per far esistere i molti se non i tutti abbassa ogni tono e ogni valore non di rado rifiutando chi invece, come si suol dire nel silenzio delle stanze, crea linguaggio.

Gisella Blanco è una poeta estremamente giovane ma entusiasta, che pure vive con qualche amarezza e delusione. E nella sua poesia si sente tutta la forza di una terra natia che non ama, di un mondo letterario che porta avanti (ad esempio ieri a Palazzo Altemps a Roma) ma al quale preferisce il pigiama e le pantofole casalinghe.

Una casa che non è luogo di cura e accoglienza ma di analisi, autoanalisi, non di rado (forse un po’ eccessivamente) ipercritica.

Nelle poesie che qui uso per delineare meglio non solo il profilo ma l’opera della Blanco, in lettura presso importanti editori proprio in queste ore, il corpo diventa un io aperto, criptico e squartato, accogliente con dolore:

 

Ti cripti nella fragilità sanguigna del mio ventre,
mi disseppellisci con dita furtive:
sono grata d’essermi scardinata,
infranta
a ogni mio sembiante.

 

Il dolore c’è ed è continuo, un basso continuo inesorabile come la solitudine che non è solitudine di vita, ma esistenziale.

 

Comignoli accesi bruciano, poco sopra la fronte,
ne sentiamo il colore con travi portanti di pianto.

 

Le riflessioni poi si susseguono come un’analisi di sé e del mondo impietosa, nell’amarezza (forse) di volere una realtà migliore e nella fatica di un impegno a migliorarlo.

 

Giungo all’inchino
verso folle di concili ecumenici all’ora del pasto,
messe in sconosciuti linguaggi, confessionali artigliati,
stigmate d’unghia su sentieri di corpo,
confessioni spassionate alle tre di notte,
devozioni di corde vocali che rigenerano ossa,
comandamenti d’occhi fosforescenti.

 

Soprattutto leggendo l’ultimo testo qui proposto, Storie epiche, il rimando inevitabilmente va a Il deserto dei tartari di Dino Buzzati, che viene somatizzato nella geografia, geologia, geopolitica di un corpo vivente e sofferente, che esiste in toto, che misura ogni sua piega non per autoriferirsi ma per proiettarsi:

 

Sarebbe grande la storia
se fuori ci fosse il nemico.

 

Una poesia a tratti sperimentale, con un uso del linguaggio ardito e composito, molto limato, che non vuole riconoscersi in una sola poetica ma le vuole attraversare come il corpo viene attraversato dal vivere.

Perchè? Per una poetessa così giovane la domanda è impropria e ingiusta. La Blanco farà molta strada nella direzione della delusione, dell’amarezza, arrivando a comprendere che una ferita aperta, che sia il proprio sesso o una spaccatura dolorosa del corpo, non di rado è solo un permesso al mondo di devastarti. Carlo M. Cipolla nel suo Trattato sulla stupidità definiva il male fatto senza un motivo come sinonimo di stupidità. Un male fatto senza alcun tornaconto. E chiunque abbia vissuto un poco sa che viviamo in tempi estremamente stupidi, dove la democrazia è diventata tirannide della mediocrità.

Per questo, a prescindere piacciano o meno, sono importanti i versi della Blanco. Perché, intrisi di una purezza amara, sono capaci di trasmettere una luce che affronta la crepa, la spaccatura, il racconto di sangue.

Alessandro Canzian