Bruciasse l’alfabeto rimarrebbero
intatti i segni del tuo nome.
Vorrei conoscere il mondo dei morti,
reclamarlo in una lingua senza storia
che non abbia una grammatica, ma possa
avverare tutto ciò che si pronuncia.
Mi usano per parlare a chi è rimasto,
vogliono che dica, rovesciandola,
la parola che non hanno mai trovato.
Legami nel sangue. Non temere
che mi ammali o sia stretto troppo forte:
solamente ciò che è unito nelle vene
resiste alle stagioni e non finisce.
Vedi, non restano che i nostri
frutti sulla tavola:
mia madre che li sbuccia; i loro
nomi che pendono dall’orlo
e cadono tra il pavimento e l’invisibile.
Ora all’uva basta un soffio per marcire
in fretta e diventare una preghiera.
I morti odiano sapere
il destino di noi tutti:
è per questo che confondono
i segni che ci capitano.
(da L’età dell’uva, in pubblicazione presso Perrone Editore)
Mattia Tarantino è nato a Napoli nel 2001. Co-dirige Inverso – Giornale di poesia (sito amico di Laboratori Poesia) e fa parte della redazione di Atelier. Collabora con YAWP e come traduttore con Iris News. Recentemente ha assunto la direzione della rubrica Diario Italiano per la Buenos Aires Poetry e della rubrica Dialoghi su Menabò (rivista di Terra d’Ulivi Edizioni). È apparso sui maggiori quotidiani e riviste, italiani e internazionali, tra i quali una lunga intervista a febbraio 2021 su Rolling Stone. I suoi versi sono stati tradotti in nove lingue. Ha pubblicato Tra l’angelo e la sillaba (Terra d’Ulivi Edizioni, 2017) e Fiori estinti (Terra d’Ulivi Edizioni, 2019). Gli inediti che qui appaiono fanno parte di un nuovo lavoro di prossima edizione.
Ho voluto iniziare questa breve nota su Mattia Tarantino, ragazzo che incrocio virtualmente ogni tanto ma che non ho mai incontrato di persona, proprio per fare un focus su un aspetto che lo tange in maniera importante. Mattia è giovane, molto giovane, eppure gode di una eco importante che mi fa subito emergere un’avvertenza (non da uomo appena un poco più vecchio, s’intenda, ma da Editore): la troppa notorietà o le troppe lusinghe, in età giovane, rischiano d’essere un po’ come una macchina molto veloce ma con un pilota inesperto. Lo schianto è sempre dietro l’angolo.
Non dico sia il caso di Mattia, di cui conosco la poesia, ma è bene riflettere su tale aspetto per evitare di cadere nel concetto di meteora o per evitare di farsi bruciare troppo velocemente da una società (in questo caso letteraria ed editoriale) non di rado cannibale.
Torna utile ricordare in questo frangente lo straordinario Dottrina dell’estremo principiante di Mario Luzi (Garzanti, 2004) che in bandella riporta un estratto estremamente interessante:
«In Dottrina dell’estremo principiante Mario Luzi riesce magistralmente a conciliare gli opposti. La libertà formale si associa al rigore del pensiero. Una lingua preziosamente distillata, molata con cura paziente, sgorga limpida, con felice naturalezza. La lezione dei grandi maestri della tradizione, a cominciare da Dante e Petrarca, si innerva di inquietudini affatto moderne. Il sentimento della materia, la rivelazione della bellezza delle creature, assecondando il respiro delle stagioni, si fanno meditazione sulla realtà profonda delle cose e sulla santità del creato. Una saggezza che è frutto dall’esperienza erompe con freschezza tutta giovanile.»
Tale testo è sicuramente uno dei migliori auspici che si possano fare a un giovanissimo e promettente autore come Mattia Tarantino. E decisamente racchiude in sé uno dei punti cardine della crescita di un poeta:
La lezione dei grandi maestri della tradizione, a cominciare da Dante e Petrarca, si innerva di inquietudini affatto moderne. […] Una saggezza che è frutto dall’esperienza erompe con freschezza tutta giovanile.
Il discorso sulla saggezza lo trovo particolarmente interessante in quanto sottolinea un elemento molto distintivo della parola. Nella vita la saggezza è frutto dell’esperienza, ma in poesia è sovente frutto del linguaggio. Sia ben inteso, il linguaggio non è mai cosa data a prescindere, mai una caratteristica calata dall’alto, ed è per questo che su Luzi si parla della lezione dei grandi maestri.
È ovviamente ancora troppo presto, e soprattutto sarà necessario leggere l’intera opera in pubblicazione, per parlare di maestri specifici e consolidati. Sicuramente oltre Baudelaire, Rimbaud e Verlaine, si intravede un Dylan Thomas tra l’altro dichiarato in diverse interviste. Che viene in qualche modo contestualizzato e reso contemporaneo (Thomas nasce nel 1914 e muore nel 1953) da una domanda sottesa nei testi che non voglio assolutamente appellare come generazionale, ma di cui ne ho l’auspicio.
Tarantino in fondo s’interroga sulla mutevolezza della realtà. Su quel marcire che diventa preghiera e che in riferimento al nostro periodo storico non può più essere accusato (anche di fronte alle diverse attività sulla letteratura di Mattia) di semplice posa. Lui stesso, rispondendo a Gianmarco Aimi nel succitato articolo di Rolling Stone, anticipa la critica affermando:
[…] (Galloni) ha scardinato molte forme della poesia contemporanea. Però sarebbe inesatto, perché come dice Mandel’štam “il poeta non ha mai contemporaneità”. Ha scardinato la poesia vigente, quella egemone, recuperando una via semplice, della “scuola romana”, vicina all’esperienza delle persone e vi ha introdotto un varco per l’invisibile. […]
Il verso appare posato, misurato, non incontrollato dall’inesperienza ma calibrato in una lunghezza omogenea, con pochi enjambement o differenze di lunghezza utilizzate solo a modularne la velocità, come in:
Vedi, non restano che i nostri
frutti sulla tavola:
mia madre che li sbuccia; i loro
nomi che pendono dall’orlo
e cadono tra il pavimento e l’invisibile.
Le chiuse spesso vivono di una rotondità puntuale, limata:
vogliono che dica, rovesciandola,
la parola che non hanno mai trovato.
Ora all’uva basta un soffio per marcire
in fretta e diventare una preghiera.
Dove nel primo esempio vediamo una pausa in mezzo al penultimo verso che porta a una chiusa piana, che ha la sua rotondità nell’allitterazione della a che segue quella della m e della n. Mentre nel secondo esempio vediamo due versi musicalmente incatenati con in chiusa un endecasillabo che si appoggia all’assonanza fretta/preghiera.
Tutto questo per dire che oggi si deve guardare con maggiore attenzione critica anche ai giovanissimi poeti ma con la sincerità intellettuale di non fare sconti, di non entusiasmarsi per bagliori nuovi e ancor più con l’onestà di non voler diventare parassiti di chi ha ancora le gambe forti, logorandoli, mutilando i loro potenziali percorsi.
Perché le promesse non siano urla che si consumano nella propria o nell’altrui gola ma preghiere che continuano, che si affinano, che si evolvono fino alla grandezza. Come, a me sembra, è e potrà essere ancor di più Mattia Tarantino.
Alessandro Canzian
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