Poema della fine, Vasilisk Gnedov (Terra d’ulivi 2020, traduzione a cura di Mattia Tarantino).
È un’interessante proposta e al tempo stesso una provocazione, certamente una proposta spiazzante per qualunque lettore che non abbia una conoscenza dell’opera di Gnedov, questa traduzione ideata da Mattia Tarantino per i tipi di Terra d’ulivi. Senza anticipare il contenuto dell’opera (e senza rovinare l’inevitabile sorpresa che coglierà il lettore nel suo rapportarsi al poema) riteniamo che una proposta come questa, in un periodo storico che è subissato dal proliferare di versi e di poeti, dalla moltiplicazione incontrollata delle opere, serva a ricondurre tutti a un maggior senso di sobrietà e di riflessione sul significato di “ricerca poetica”, sul rispetto che merita la parola.
In questo poema, che chiude il suo Morte all’arte (1913), Vasilisk Gnedov – esponente di punta del movimento russo dell’Ego-Futurismo, figlio del Futurismo Italiano trapiantato in Russia e rivale del più noto Cubo-Futurismo – porta alle estreme conseguenze quello sperimentalismo sulla metapoesia che lo porta nell’opera in esame a una sempre più progressiva e radicale rarefazione del linguaggio e della parola fino a questo esito ultimo. Tuttavia quella di Gnedov non è l’ammissione di una resa, lo sventolare bandiera bianca della poesia all’irriducibilità del silenzio: anzi, la pagina bianca così spudoratamente esibita è un chiamare a raccolta tutte le forme possibili del linguaggio, farne una sintesi definitiva nella forma di un’aggregazione allo stadio finale, allo stesso modo in cui, come ben noto a tutti, il bianco assomma in sé tutti i colori, tutte le possibili declinazioni cromatiche dello spettro visivo.
Allo stesso modo dell’esperimento musicale di John Cage, con la sua celeberrima composizione a tre tempi dal titolo 4’ 33””, tentare la rappresentazione del silenzio ne comporta immediatamente la negazione: il fascino della composizione di Cage deriva dall’impossibilità di questo silenzio; la musica che nasce dall’esecuzione di 4’ 33” è ogni volta nuova perché prende forma dall’ambiente in cui avviene l’esecuzione, dai suoni generati da pubblico e esecutori impossibilitati alla consegna del silenzio assoluto, dall’ineludibile rumore di fondo. Non diversamente avviene per il poema di Gnedov; è impossibile per il lettore un’interpretazione e un’interiorizzazione univoche dell’esperienza offerta dal poema, perché diverso è lo stato d’animo del lettore che vi si confronta, diversi i riverberi cognitivi e linguistici che la pagina bianca è in grado di suscitare, diverso il “suono” che viene percepito. Ogni lettore crea quel silenzio in una forma diversa grazie all’annichilimento di suoni e di linguaggi che sono unicamente i suoi, irripetibili per chiunque altro. Come per qualunque testo poetico, anche per il “Poema della fine”, è unica la riscrittura di questa opera d’arte che si deve al contributo attivo del lettore; siamo forse di fronte al concetto più ampio e più polarizzato di “opera aperta” (Umberto Eco), nonostante l’apparente minimalismo, nonostante la tentazione di ridurre questo lavoro a puro sberleffo da parte del suo ideatore.
È quindi sensato e opportuno procedere alla traduzione di un’opera come questa, come s’è arrischiato Mattia Tarantino? Siamo di fronte alla traduzione più facilitata possibile di un originale, e paradossalmente alla traduzione più fedele e più perfetta fra tutte le traduzioni che si possono immaginare per qualunque opera letteraria? Finalmente possiamo parlare di una resa alla pari nel passaggio da una lingua all’altra, senza traumi, senza travisamenti, senza tradimenti? Gnedov ci ha aperto la strada di un linguaggio davvero universale, senza esperanto? E vale lo stesso per la versione speculare di Tarantino?
Certamente la traduzione è anche in questo caso operazione lecita: la lingua pensata da Gnedov (il russo) è diversa dalla lingua del lettore di questa pubblicazione (l’italiano). Quindi in senso stretto la traduzione voluta da Tarantino, che si rivolge al lettore italiano, oltre che lecita è perfino e paradossalmente necessaria. Nonostante l’identità apparente di originale e traduzione, i due esiti sono in realtà i più distanti possibili se rapportati alle lingue di partenza. Infatti, se seguiamo il ragionamento iniziale per cui qui il silenzio è l’interferenza (usando la terminologia della fisica delle onde) e la ricombinazione di tutte le possibilità verbali del linguaggio fino al loro reciproco annichilimento, allora quelle pagine bianche sono completamente diverse in Gnedov e in Tarantino perché singolarmente diverse le componenti che contribuiscono a quella risultante. Nell’opera di Gnedov assistiamo alla nullificazione di tutte le forme verbali possibili della lingua russa così come nella traduzione di Tarantino avviene per tutte le forme verbali della lingua italiana: ciascuna di queste forme è singolarmente diversa all’altra, ogni singola traduzione di queste forme dall’una all’altra lingua inevitabilmente imperfetta e tradita, anche se la risultante (il bianco) è la medesima. Solo apparentemente i due testi sono perfettamente combacianti; in realtà restano non sovrapponibili, addirittura antitetici e respingenti. La superficie apparentemente liscia e polita di entrambi nasconde tutte le irriducibili scabrosità microscopiche delle loro componenti atomiche.
I lavori di Vasilisk Gnedov e di Mattia Tarantino meritano allora tutta la nostra riconoscenza perché ci richiamano a riflettere sulla radice del linguaggio e dunque della parola poetica che ne è la forma espressiva più originaria e più alta. Non ci viene offerta una facile via d’uscita, anzi viene impudicamente esibita tutta la problematicità dell’equilibrio mai pacificato fra parola e silenzio, perché mai si dà l’uno senza l’altra e viceversa. Comunque inconoscibili e inafferrabili entrambi.
Fabrizio Bregoli