Io non so cosa ho perso – Biagio Accardo


 

(Palermo, primavera 2020)

 
Continuo a guardarla, a fissarla
bene negli occhi, e intanto
cerco in me i resti della sua presenza
seppelliti dal vociare di marzo
che dà il benvenuto a un nuovo e più ostinato sole.
Ma vana è la ricerca, e così
accenno a un diniego, un negare
sottovoce, se non rassegnato. Mi chiedo
se fu amore ciò che poi non si ricorda,
se questo vuoto condanna me
e condanna lei al rimorso di ciò che mi ha donato.
Faccio quasi per girare, per andarmene,
ma lei insiste: “Guarda”, dice –
ponendosi fra me e le mie illusorie destinazioni –
“guarda e non temere”. E io,
che meglio ora la fisso, le riconosco un dolore
che tanto le ho donato perché ve ne traesse
questo sentore di continua alba.
E finalmente ricordo, finalmente
metto a fuoco un amore antico
quanto la mia stessa nascita, un amore
fatto d’un silenzio che più volte m’ha salvato.
 
 
 
 
 
 
Ricordo d’essermi finalmente dimenticato,
d’aver spento i fari sulla mia vita
quando troppo fu il pensiero
o l’assillo di Dio. Si aprirono così
nuove strade: Caino finalmente riparlò
con Abele, il serpente restò serpente,
la morte una semplice e piatta morte
e la vita ebbe la strana ebbrezza
che hanno i petali del pesco
quando irrompe la primavera.
 
 
 
 
 
 
Essere di qui, di un luogo, un dirupo
sul mare. Essere di qui
come lo sono la lucertola che veglia
negli anfratti, i fichi rachitici
tra i calcari butterati dalla pioggia
e dal vento, il timo, i rivi secchi
e duri nel loro piangere, i vecchi
che dormono all’ombra
di grandi carrubbi. Essere di qui,
di questa vita ed anche di questa morte,
e pure di te, o mio Dio, che diverso
ti dai se diversa è la terra che ti beve.
 
 
 
 
 
 
Io non so cosa ho perso,
ma adesso piango se una rondine va via,
se una porta si chiude e non so chi,
né so quando si riaprirà.
Ora c’è un tempo che scuote
radici e ci offre, come ramaglie,
al turbine impazzito dei giorni.
Io non so cosa ho perso,
ma ciò che ho perso è solo ciò che sono,
ciò che resta; e questo poco
che resta è il solo pane che spezzo,
la razione del mio domani,
quella che lascio sul palmo delle tue mani.
 
Da Luce del più vasto giorno (peQuod, 2022)
 
 

Ho conosciuto Biagio Accardo in occasione della pubblicazione Ascetica del quotidiano (Samuele Editore, 2019, collana Scilla, prefazione di Massimiliano Bardotti) e l’ho ascoltato di persona nel 2020 a Trieste a Una Scontrosa Grazia e a un Dopocena col Poeta. Già al tempo rimasi colpito dalla precaria ma al contempo ferma certezza di un autore capace di equilibrare, nel verso, un disequilibrio interiore tenuto assieme da un concetto oggi tanto abusato quanto poco conosciuto, e misconosciuto: la fede.

Lo ammetto subito: non sono un uomo di fede per quanto io creda nell’esistenza di Dio. Ma non ne accetto più la Storia, che è la Storia dell’abbandono dell’uomo a sé stesso. Massima meraviglia del creato? Possiamo veramente crederlo? Chiunque abbia un po’ di contezza del mondo e dell’uomo non può più (anche senza scomodare il buon Von Sacher-Masoch o Adorno).

Certo ci sono brevi illuminazioni, momenti di pietà, tenerezze che non bastano e non basteranno mai a compensare la crudeltà, l’aggressività, che millennio dopo millennio (alcuni riferiscono che la prima guerra, così definibile, risale a 10 mila anni fa) ha triturato esseri umani senza alcun beneficio finale, con il solo obiettivo di perseguire quel che si crede essere il proprio bene.

Pascal già lo aveva detto:

Tutti gli uomini cercano di essere felici. Per quanto i mezzi possano differire, ciò si verifica senza eccezione. Tutti tendono a questo fine. Chi va in guerra e chi non ci va sono spinti dallo stesso desiderio, anche se con idee diverse. La volontà non si muove di un passo se non in questa direzione. È la causa di tutte le azioni di tutti gli uomini, anche di quelli che vanno a impiccarsi

(Pensées, 138)

Il problema è che non siamo costituzionalmente (per buona pace della metafora biblica) in grado di comprendere il bene, la felicità, proiettandola oltre il nostro naso.

Quanto poco ci vuole a convincere un essere umano che la sua vita è più importante di quella degli altri, siano essi uomini o donne, anziani, bambini. La storia in questo si ripete in terra quanto in mare quanto nelle piazze dove si urla ai diritti. Laddove forse l’unica vera colpa non è nel burattino ma nel burattinaio, a sua volta in cattività a causa di altro. Intendo tutti quegli espedienti per far passare un concetto e che dilagano nella nostra vita dal macro al micro aspetto. Quanto poco ci vuole a far pensare l’uccisione come un atto di libertà? Elimina il contatto visivo, non mostrare il dolore dell’altro, elimina (se già non impossibili) le comunicazioni, costruisci una storia semplice dove ci sono i buoni e i cattivi senza dimenticare che il tema del sacrificio muove il mondo, perché crea una mitologia eroica che fa tollerare ogni dolore e ogni atrocità. Che ti fa uccidere sentendoti vittima dell’obbligo di fare qualcosa che comprendi essere orrendo. E non dimenticare di promuovere casi sempre più estremi per spaventare da una parte, per normalizzare dall’altra. Ripeti la formula continuamente perché la ripetizione trasforma anche la più assurda bugia in verità, e avrai milioni di persone pronte a uccidere e a uccidersi senza nemmeno comprenderne il perché.

Questa è la storia umana, e in questo c’è veramente spazio per Dio? Autori come Biagio Accardo dicono di si, anche se (così leggo la poesia di Biagio) guardare Dio ti fa esplodere gli occhi.

 

Rimando ad altri momenti ben più estesi e approfonditi, e meno legati all’opinione personale, una doverosa recensione per questo bellissimo Luce del più vasto giorno (peQuod, 2022). Nel format di queste Poesie al microscopio, idea iniziale di Mario Famularo che per anni ha portato avanti una precisa linea critica attraverso brevi ma precise note (oggi assorbite nel contenitore Microcosmi), voglio prendere solo quattro testi tratti dal libro Luce del più vasto giorno (peQuod, 2022).

La cosa che colpisce è l’evidente (più che nel precedente edito) eco di maestri non solo formativi ma quasi a tutt’oggi dialogici. Non si può non notare l’epigrafe iniziale di Luzi: “…e questa l’opera / che si compie ciascuno e tutti insieme / i vivi e i morti, penetrare il mondo / opaco lungo vie chiare e cunicoli / fitti d’incontri effimeri e di perdite / o d’amore in amore o in uno solo / di padre in figlio fino a che sia limpido” che prelude a diverse tematiche di cui è intrisa l’opera. Ma Luzi è anche il Luzi del canto, dell’epifania (che l’autore segnala ulteriormente nella citazione di Rilke: Il canto che tu insegni non è brama). Quel duro canto ed epifania che partiva da Questa canzone non ha più parole, straordinaria chiusa in “La notte viene col canto” (“Appendice al quaderno gotico” in Quaderno gotico, Vallecchi, 1947, e prima ancora  in “Inventario”, 1946) e arrivava all’incommensurabile: Mondo, non sono circoscritto in me, / hai voluto che fossimo ciascuno / un progetto di vita / nel progetto universale. Con un Amen finale che raccoglieva tutta la controversa umanità di Sotto specie umana (Garzanti, 1999).

Al tempo ero ragazzo, e chiedo perdono al lettore se torno all’esperienza personale (ma in fondo cos’è la poesia se non un confronto con sé stessi e la propria storia per amare un mondo che fa di tutto per non farsi amare? Anzi, potremmo quasi dire che la poesia, quella vera, non quella delle bacheche di facebook-instagram-tiktok, è proprio l’ultima trincea da dove, immersi nel fango dell’esperienza e della riflessione, si dice al mondo che lo si ama nonostante lui ti voglia massacrare, quel mondo che è il sole divoratore di carne di Thomas mentre tu poeta sei l’unica sua possibilità di esistenza perché tu sei la sua umanità residua). Al tempo dunque ero ed eravamo ragazzi e leggevamo la prima edizione di Sotto specie umana di Luzi e credevamo in quel canto, in quel so bene che dobbiamo mutuamente / tu ed io crescere insieme. Fu uno dei tradimenti più ecclatanti della nostra generazione perché, a più di vent’anni di storia vissuta, quella possibilità non è flagrata e anzi il mondo è tornato indietro, urlando al progresso.

Avremmo letto solo dopo Ah quel tempo è un barbaglio di là dal gelo eterno tornando al Luzi iniziale, quello stesso Luzi che in nota, nel Garzanti del 1960, avvertiva: Quaderno gotico è l’album di un amore tanto più esaltante e spiritato quanto più l’animo ne aveva bisogno dopo l’aridità, la paura l’angoscia, l’odio.

 

Non voglio con questo paragonare Accardo a Luzi perché sarebbe improprio e perché sarà la storia a contestualizzare l’Accardo poeta, oltre al fatto che la mia opinione è viziata dalla stima amicale (seppure con rarissime frequentazioni), ma è certo che sul piano dei versi leggere E io, / che meglio ora la fisso, le riconosco un dolore / che tanto le ho donato perché ve ne traesse / questo sentore di continua alba. / E finalmente ricordo, finalmente / metto a fuoco un amore antico / quanto la mia stessa nascita, un amore / fatto d’ un silenzio che più volte m’ha salvato, fa molto pensare e desiderare una resilienza (ah quanto abbiamo abusato di questo termine non comprendendolo!) dell’umano nella Storia.

Accardo non parla della grande Storia, non ci si lasci ingannare dalla data apposta (primavera 2020). Il libro da cui traggo questi versi affonda, per ammissione dell’autore in nota, in pagine scritte fin dal 2009. La pandemia non era nemmeno pensabile e non lo deve essere qui (al massimo come accidente).

Ma questi versi (un amore / fatto d’un silenzio che più volte m’ha salvato) oggi ricordano che il silenzio è un canto più dolce e sostanziale del brusio di fondo che costella i ben noti non-lieu di Augé. Che pure ci intridono fuori e dentro. Un silenzio che mette a fuoco un amore antico e porta a una salvezza oggi negata di una negazione che non ha nessun soggetto che nega, ma tante persone a cui viene negata e che autoalimentano la negazione stessa.

Ma cos’è questa salvezza? Lo dice Accardo nel secondo testo preso in esame: ricordo d’essermi finalmente dimenticato. Dunque cos’è questa dimenticanza legata al troppo fu il pensiero / o l’assillo di Dio? Gli echi possibili sono moltissimi. Le sette P dantesche che comunque resistono nell’uomo anche quando cerca Dio o la sua idea? O è prevalente quella preghiera pregna di fede e dolore di Turoldo che piangeva sul foglio e sugli anni la propria solitudine vissuta e sofferta come duro dono a Dio? (Io non ho mani / che mi accarezzino il volto, / (duro è l’ufficio / di queste parole / che non conoscono amori) / non so le dolcezze / dei vostri abbandoni: / ho dovuto essere / custode / della vostra solitudine: / sono / salvatore / di ore perdute).

Io non lo credo e sono pronto a essere contraddetto dall’autore. Quella strana ebbrezza, quei petali del pesco ricordano il succitato amore tanto più esaltante e spiritato quanto più l’animo ne aveva bisogno luziano, meravigliosamente coniugato con un inconsapevole (e non potrebbe essere altrimenti) Vorrei fare con te quello / che la primavera fa con i ciliegi di Neruda. La primavera irrompe con una sensualità umana che porta a Dio, passando attraverso l’aporia della dimenticanza, e lo abbiamo già letto in Accardo: Mi chiedo / se fu amore ciò che poi non si ricorda, / se questo vuoto condanna me / e condanna lei al rimorso di ciò che mi ha donato.

 

La domanda continua perché un uomo senza domande è un uomo che non dubita, e un uomo che non dubita è un uomo che non ha fede. Resto in disaccordo (ma forse più per il succitato tradimento di Luzi e per l’asprezza con cui io stesso l’ho vissuto) con l’autore ma poi leggo: Essere di qui, / di questa vita ed anche di questa morte, / e pure di te, o mio Dio, che diverso / ti dai se diversa è la terra che ti beve. Ribadisco non siamo di fronte a un autore che parla della Storia, di quel groviglio contraddittorio e autolesionista che si massacra per ogni centimetro di progresso, ma inevitabilmente parlando di uomo si parla dell’atomo costituente e partecipante della Storia. Questa diversa […] terra che ti beve riporta per associazione alla mente il Quando è deserto il fondo del bicchiere, / quando è sbiadito il fondo del bicchiere / sopra il bicchiere le bocche picchiano / come su un morto di Éluard (La capitale del dolore, Gallimard, 1926). Éluard scrisse La capitale del dolore dopo essere stato infermiere militare durante la Prima Guerra Mondiale e dopo un viaggio personale all’insegna del desiderio di abbandonare tutto.

Anche in questo caso l’associazione forse va oltre l’intenzione originaria ma bene fotografa e spiega l’approccio totalmente e volutamente umano di Accardo. La disperazione di Éluard non è sconosciuta ad Accardo nel rapporto con un Dio complicato e diverso, quasi mai comprensibile. E mi chiedo se non serva proprio Éluard a capire la diversità di Dio a cui fa riferimento Accardo.

Di certo l’autore conosce bene il dolore, il desiderio di abbandonare tutto, che nell’ultima poesia presa in esame diventa una domanda sulla perdita e sul valore della perdita. Oggi ci affidiamo solo a ciò che conosciamo riducendo lo spazio di osservazione a quello che già comprendiamo (simil algoritmo social). A ben vedere per noi oggi non esiste nulla al di fuori di quello che conosciamo, e lo conosciamo solo perché lo possiamo accettare. La psicologia dell’accettazione nell’uomo è quasi sempre legata al proprio interesse (una deviazione della succitata felicità di Pascal). Accardo afferma senza mezzi termini che questo poco / che resta è il solo pane che spezzo in offerta sul palmo delle tue mani.

Lo scandalo dell’offrire oggi è la crepa del nostro essere egoisti ed egoriferiti, perché così controllabili. L’offrire, il darsi assumendosene il costo in vita, in domani, è uno slegarsi dai lacci del mondo pur restandone immersi. Una forma di libertà che pochi possono capire, ieri come oggi. E che mi fa amare la poesia di Biagio Accardo pur non condividendone la fede. Ma la poesia è anche questo: farti sentire la potenza e la profondità del magma dentro un uomo, anche se non ne condividi il discorso.

Alessandro Canzian