Ufficio del sole, Giusi Busceti (Stampa 2009, 2022).
L’ultimo libro di Giusi Busceti, Ufficio del sole, Ed. Stampa 2009, è uno spartito in cui ciascuna parola diventa nota. Rovistando nel quotidiano l’autrice riesce a dare una disposizione armoniosa a una miscellanea di oggetti. Così come Joseph Cornell rovistava nei robivecchi per trovare cimeli da inserire nelle sue scatole, Giusi fruga nella regione foveale della sua retina e appunta nei versi galassie di immagini e suoni.
Le parole dimenticano il loro significato e si accostano alle cose svelandone il significante secondo un’alchimia di ricordi e visioni. Con sparsi frammenti di linguaggio i versi sibilano e si muovono in modo sinuoso come una serpe che incanta. Le cose, riassemblate secondo le sensazioni del poeta, appaiono assiepate in un cabinet de curiosités, quadri sconosciuti dove materia e suono danzano nell’ignoto: è facile, quindi, che una spuma bianca si accosti alla notte o che una “tendavela” accomuni insieme a un muezzin la porta d’oriente e i giardini dell’Alhambra.
Tutto, vortice, masso erratico, è mosso dalla consapevolezza che dal mondo miracoloso della materia si possa raggiungere il trascendente. Sembra dunque che la religione del mondo per l’autrice sia l’esistenza del minuscolo e che il compito del poeta sia svelarne la reale dignità.
La cifra poetica di Giusi si presta all’attenzione di lettori che esigono molto dalla scrittura, i versi non sono mai lasciati al caso e il controllo è rigoroso pur non togliendo nulla alla visione. Nelle sue mani suona naturale l’endecasillabo che resiste alla destrutturazione della sintassi.
Attraverso inversioni, anticipazioni, precessioni del genitivo, infatti, l’autrice pone l’accento sulle emozioni più forti e la colloca nei punti estremi del verso affinché restino impresse nel lettore. E se l’autrice concede delle micro-anticipazioni del futuro discorso poi le blocca e le riprende per dipanarle definitivamente. Ricordando la lezione del maestro Majorino, esplora il territorio dell’ignoto partendo dal noto, usando un linguaggio colloquiale per ricercare significati nascosti.
Così sembra quasi che Giusi, chiedendo una risposta all’esistenza, scardini il linguaggio per schiudere l’ignoto e capire cosa le viene nascosto del mondo e di sé.
Emilia Barbato
Otranto
Oro com’era d’Otranto
sorgeva dalla spuma bianca notte
all’estremo canale che ci
porta d’oriente in sogno,
tendavela, muezzin (pregammo) salvaci
dagli anni che ci vennero, un istante
dopo lo chiusura notturna dell’Alhambra, appena dopo
l’estremo avvertimento
(noncuranti, insieme prigionieri
una via d’uscita pur cercando, pur certi,
sorridendo) pregammo
salvaci, masso erratico di vortice veemente bianca
spuma a giorno, orlo di asciugaocchi saldo lino
che mi porti quei colori interrotti dagli errori
che aspettano da anni ben riposti
che si lasciano spiegare, ora, e vedere:
è la tela stessa d’allora, che ripete
e ripete nel ricamo stamattina: spero
o non spero spero o non spero spero
nell’amore io dico, che ci porta
di porta in porta, che ci sposta
com’era d’Otranto marea di tramontana
in braccio ai giorni
maledetti a chi osa, ventovela
o unica a vegliare chi non sa
e chi sa uniti in sonno
soli come sentieri che perdendosi
ricercano le mura messapiche
ora semplici sassi smarriti rovi rovi,
oro di tutti alzando semplici mani
di bianco addio, mosaico usci schiusi
e voci e biciclette alla svolta
in calce viva di borgo in bianco,
sera oro congedo
già provata com’era a fuoco, che trionfante
riemersa intatta splende, così
era Otranto, che a vento grida
sono a vita ferita ora da un tramonto
qualsiasi, ora grida io devo
imparare ad amare i mille volti
di dio, per questo vivo.
Sorgente
Mai stata un bicchier d’acqua o
fontanella docile ma
qui di fronte nel buio ho luna limpida
come sola sorgente.
Sa cantare nel vento, sa
irrigare in cascata i boschi assorti,
le margherite semplici. E attendere
altre acque cui riunirsi, infine
larga e calma farsi fiume
incessante. Quanti sbalzi
e cadute quante secche oltrepassare e
detriti e rifiuti in grembo accogliere
coprire trasformare! Con sé.
Anni e decenni, solo chi ha tempo
può aspettare tempo.
Innaffiatoio
Dev’esserci un motivo se fiorisce
tutto questo minuscolo balcone
qual oasi travolta da un tripudio
mentre io boccheggio tra un divano e un letto
e un lavoro d’infelice quotidiano ostaggio.
Qualcosa sfugge dunque all’ostinato
passivo dei miei calcoli. Non tornano
davanti all’evidenza che c’è coloratissimo
un ritorno: prima, vera e potente la feconda
stagione della mia fatica se ne infischia
e dal fondo succhia ridente al mio estenuato
innaffiatoio inconsapevole l’istinto
a non lasciarmi rovinare. Cosicché
mi ritrovo dai germogli e dai fiori
ad apprendere più forte dell’amaro
che mi spinge l’amore irrigatore
ben oltre quel ch’io ne voglia sapere.
Passo di croce arcana
mattina di casa sfuggita alla presa
dei ritmi, ciò che non mi sorregge
sorretto dai notiziari
dalle scale mobili morire
di ferite guarite e questa innocenza
di avanzi scaldati, di frigo deserti.
Per accessi fulminei
ricordo gli oggetti, spoglio il guardaroba, per ingenua
iperbole che mi voglio. Questo sì, è silenzio. Sto
con le quattro capriole di questo ben poco
mi avvolgo al letto con le forze chiedo
febbre mi percorra davvero
sia autostrada così in terra
come in sacchi perforati d’immondizia, cari spigoli
che lo scarto non poteva evitare. Sto parlando
ogni giorno ai cortili, solo per i cortili
dove tradire era impossibile. Mattina
come casa bambina come
possono gli occhi mutare occhi, lui pure
dormiva lontanissimo nei tempi lontani, di recente
incuneato nel nostro infine amore: così
dettato parola per parola
raggiunto per lungo camminare
con due calci si liquida io cessare di crederti
meraviglia, spezzare ampolle di cristallo, di
mattina come capodanno che semplicemente nomino
come amore pretendo dagli avanzi
di neve che non c’è ma coi passi
ora torna ai cortili
che tradire di nuovo è impossibile mentre
socchiude, tra una camera e l’altra
sta nascendo.