Dove c’è origine c’è il rovescio del pieno – Silvia Rosa

Dove c’è origine c’è il rovescio del pieno - Silvia Rosa

 
 
Catania Polaroid
 
Il cielo si incendia, lava liquida,
sull’autostrada asfittica,
sulla zagara che osserva il limite,
sulla schiera di case sbeccate
dall’orgasmo dell’Etna, su questa
età, dice la zia, novantacinque occhi
affondati nella demenza – la vecchiaia
è cosa tinta
– mentre l’arancio radioattivo
del cielo spiove sulle famiglie in processione
sulle loro genealogie innestate di malanni,
sul macellaio con le mani di sangue
che riempie la velina del budello con pistacchi
e carne, sui fiori in bella vista davanti
al luogo dei silenzi di marmo, su questa
assenza, fissata come spina sotto l’unghia
dei ricordi, questo mi manchi che cambia
accusativo di persona ancora e ancora
per non tremare alla radice tutta la paura
d’esser vivi, finché il cielo piomba sulla luna
smarrendo il senso di ogni nome e
la musica commuta l’allegria in vocativo:
dove c’è origine c’è il rovescio del pieno,
la catena stretta alla gola del cane che tira
da un capo all’altro della solitudine,
senza direzione, il lampo d’una vita.
 
 
 
 
 
 
Goccia
 
La furia della goccia
che distilla il suo cammino
di passi verticali e poi si schianta
senza peso, quasi invisibile,
in questo lunedì mattina
d’inizio primavera, la testuggine
del sole nuovo che sbuca dal letargo
delle ombre ‒ all’improvviso
anche il pensiero sgocciola, fluisce
finalmente libero: quante inutili
corde alle caviglie delle primule
come se imbrigliandole al cuore
potessero crescere più forti
 
ma
 
l’acqua dice nella sua lingua morse
(testarda): precipita più svelta,
più leggera, più sola,
non hai bisogno di niente
oltre allo sguardo delle tue mani
che accarezzano sapienti
i primi germogli di tempesta.
 
 
 
 
 
 
Un fuocherello in mezzo al mare
 
Se tu sapessi la desolazione di un foglio
da disegno, carta riciclata paglia grezza,
un suono di foglie accartocciate sulla strada
che tutti i giorni lunghi anni camminavo a scuola
‒ quel niente, non una parola né un’immagine ‒
 
come in quel video, provo a dirti, che una bambina
di cinque anni tiene stretto suo fratello appena nato
e lo accarezza piano piano fino a commuoversi:
se tu sapessi che così vorrei amarti, con stupore
e il desiderio di sentire ancora intatta la fede
nel fiore di lavanda che profuma ogni cassetto,
nel gioco della luce intorno al tavolo addobbato,
nel nome della madre stipato in un per sempre,
ma non esiste più nemmeno l’ombra che bordava
di un abisso viola scuro il confine della sedia vuota,
e la tovaglia è immacolata, spoglia, se tu sapessi
il bene che ti voglio
, diceva quella filastrocca,
faresti un fuocherello in mezzo al mare, e poi sapresti
l’incredibile di ogni tradimento, il non detto,
le spalle voltate in un caleidoscopio di frammenti,
tu mi riporti all’alba di quel tempo, un attimo
prima della fine, se tu sapessi il bene che ti voglio…
‒ io so che ciò che è perso, è perduto irrimediabilmente ‒
 
e nonostante tutto aspetto e quando scocca
in gola l’ora amara del principio vedo di nuovo
rompersi bicchieri piatti i vetri alle finestre
sbriciolarsi il pavimento le tende farsi cappio
il tetto verde come un disco volante esplodere
nelle tue mani tutto il pianto che mi porto dentro,
se tu sapessi quanto vorrei credere possibile
che dopo questa guerra esista ancora un po’
d’azzurro, per lucidarsi gli occhi di infinito.
 
 
 
 
 
 
Esotico
 
Dice che senza liquore
non cambia il gusto, esotico,
sottolinea in livrea bianca,
la frutta darà quel tocco
con una noce arancio di gelato
mango e neve cocco,
è buonissimo, prendetelo,
dice con la penna puntata
contro, e il fresco della sala
coi bicchieri pronti per il dopo
sembra l’anticamera di un’alcova
di decadente lusso. Esotico è perfetto,
avrei pensato l’anno scorso,
per dire del tuo nome e del profumo
che porti addosso, ma mi sbagliavo
se ora la tua pelle mi sembra familiare
come se fosse la continuazione
di un discorso iniziato con me stessa,
e ogni bacio mancato è la stessa morte
a cui l’infanzia è andata incontro
una volta di troppo.
 
 
 
 

Parte una nuova rubrica su Laboratori Poesia, implementazione e crescita a seguito del successo delle Poesie al microscopio di Mario Famularo, che vedrà alternarsi tutti i venerdì testi editi a inediti presi in considerazione da Alessandro Canzian, Vernalda Di Tanna e lo stesso Famularo. La formula rimane la medesima delle Poesie al microscopio. Al momento i testi e gli autori individuati saranno esclusivamente su invito della Redazione.

Per questa prima uscita abbiamo chiesto alcune poesie a Silvia Rosa (di cui ci siamo già occupati qui).

 

Silvia Rosa propone dei testi molto materici, consapevoli della carnalità della vita che trasforma gli oggetti attorno a noi in corpi di storie, densi. Attingendo non di rado a precise figure retoriche di suono per costruirne verticalmente l’immagine e l’opposizione dell’immagine, come in il cielo si incendia, lava liquida.

Opposizione che viene reiterata come struttura fondante dei testi in vari modi. In Catania Polaroid l’incipit (Il cielo si incendia, lava liquida, / sull’autostrada asfittica) si contrappone alla chiusura (da un capo all’altro della solitudine, / senza direzione, il lampo d’una vita) nel concetto di movimento (sull’autostrada VS da un capo all’altro […] senza direzione) utilizzando inoltre con precisione l’allitterazione per sottolinearne l’importanza (lava liquida VS il lampo di una vita).

In Goccia l’iniziale La furia della goccia / che distilla il suo cammino si contrappone al conclusivo che accarezzano sapienti / i primi germogli di tempesta dividendo il testo con un fortissimo ma che crea due realtà opposte che, a ben vedere, sono ben delineabili anche attraverso la ricerca delle suddette figure retoriche di suono (in questo caso l’assonanza, si vedano i versi che distilla il suo cammino / di passi verticali e poi si schianta VS non hai bisogno di niente / oltre allo sguardo delle tue mani).

In Un fuocherello in mezzo al mare Silvia reitera tale struttura utilizzando la ripetizione del se tu sapessi che crea un ammasso d’immagini che non diventano climax ma movimento, messaggio: Se tu sapessi la desolazione di un foglio […] se tu sapessi che così vorrei amarti, con stupore […] se tu sapessi / il bene che ti voglio, diceva quella filastrocca […] e poi sapresti / l’incredibile di ogni tradimento, il non detto […] se tu sapessi il bene che ti voglio… […] se tu sapessi quanto vorrei credere possibile. Ripetizione, refrain, come una spiegazione/ragionamento sempre più dettagliato per arrivare a lucidarsi gli occhi di infinito partendo da la desolazione di un foglio, ennesima contrapposizione che vede nel mezzo del testo (come in Goccia) una separazione netta, consapevole, voluta in quel e nonostante tutto aspetto e quando scocca non privo dell’attenzione alle figure retoriche di suono a cui già prima ci ha abituato Silvia (e nonostante tutto aspetto e quando scocca).

La matericità, l’attenzione alla corposità degli oggetti, alla loro concreta esistenza in quanto materia toccabile, esperibile, come si è detto poc’anzi costella tutti i testi in virtù dell’approccio della poeta Silvia Rosa al mondo e alle sue cose. Una realtà fatta di vita vissuta come in Esotico, dove un gusto esotico riporta alla memoria inizialmente un nome e un profumo che, sempre appoggiandosi all’immagine presente ma non dichiarata della bocca (Dice che senza liquore / non cambia il gusto, sapendo che il gusto passa attraverso l’uso della bocca, VS e ogni bacio mancato è la stessa morte sapendo che è sempre la bocca che bacia), e passando per la consueta contrapposizione dichiarata (che porti addosso, ma mi sbagliavo), arriva a una riflessione introspettiva altra (di un discorso iniziato con me stessa, / e ogni bacio mancato è la stessa morte / a cui l’infanzia è andata incontro / una volta di troppo) che, a sua volta, contrappone un iniziale dialogo con un tu a una riflessione privata dell’io.

Ma la poesia di Silvia Rosa nella sua coerenza strutturale, nella sua riconoscibilità, non manca di stupire spostando gli ambiti, non lasciandosi alla facile immagine. Si rifletta ad esempio un istante sulla bocca nell’ultimo testo preso in esame. La bocca che sente il gusto esotico porta alla memoria non un’altra bocca ma un nome e un profumo, inserendo il profumo che notoriamente non viene percepito con la bocca. Quest’ultima viene invece ripresa in considerazione in ogni bacio mancato che, così facendo, evita l’immagine immediata (di cui il rischio concreto) e mette in relazione quel non cambia il gusto con è la stessa morte / a cui l’infanzia è andata incontro che diventa il vero fulcro del testo. Perché indirettamente si dice un’infanzia a cui il gusto è stato condito da frutta, da cui è stato tolto il liquore tanto non cambia il gusto, che è stata offerta come buonissima divenendo l’anticamera di un’alcova / di decadente lusso e poi la stessa morte / a cui l’infanzia è andata incontro / una volta di troppo.

Una volta di troppo che suggerisce una ripetitività che abbiamo, nell’occasione di questi pochi testi inediti, già sottolineato sia a livello di figure retoriche di suono sia a livello contenutistico: questo mi manchi che cambia / accusativo di persona ancora e ancora […] La furia della goccia / che distilla il suo cammino […] che tutti i giorni lunghi anni camminavo a scuola […] a cui l’infanzia è andata incontro / una volta di troppo. Dimostrando un’attenzione particolare di Silvia Rosa per il tempo, il suo trascorrere e il suo trascorso soprattutto a livello di relazioni, di sentimenti: dei ricordi, questo mi manchi che cambia […] come se imbrigliandole al cuore […] se tu sapessi / il bene che ti voglio, diceva quella filastrocca […] ora la tua pelle mi sembra familiare.

Nell’immagine madre che abbiamo identificato in un verso e che riassume tutto quanto detto fin’ora tra contrapposizione, figure retoriche di suono, ripetizione, tempo che passa, sentimenti (dando a questi ultimi un’ulteriore sfumatura di significato importante): dove c’è origine c’è il rovescio del pieno.

Alessandro Canzian