All you can eat. La grande abbuffata fra antologie e nuove dimensioni social

Si amplia la rete di riviste che in Laboratori Poesia trovano un luogo di condivisione, di anteprima e di discussione dei propri articoli. Dopo Cinque criteri (forse inconciliabili) di Gilda Policastro da “Laboratori critici” di Novembre 2023 (Anno III, Num. 4 – QUI), Sul decadimento del linguaggio pubblico di Piero Dorfles da “L’Immaginazione” di Manni Editore (num. 339, gennaio-febbraio 2024 – QUI), Pornologia. I corpi, le scritture di Mary Barbara Tolusso e Il quotidiano poetico di Bianca Tarozzi di Anna Toscano, rispettivamente dal “Nuovo Almanacco del Ramo d’Oro” (Serie speciale di “Laboratori critici”, Anno III, Speciale Num. 1 – QUI) e  “Speciale Ritratti di Poesia 2024” (Anno III, Speciale Num. 2 – QUI), ambedue editi dalla Samuele Editore come speciali di “Laboratori critici” e proposti al Salone del Libro di Torino all’interno dei “Progetti territoriali“, ecco aggiungersi la storica rivista Atelier di Ladolfi Editore con in anteprima assoluta un articolo a cura di Luca Benassi dal numero 114 di giugno 2024.

La Redazione


 
 

I) antologie e cataloghi

Il listone dei poeti è l’ultimo atto critico sulla poesia contemporanea italiana. Ci ha provato Andrea Temporelli, prima su Facebook e poi con una maggiore ponderatezza sul suo sito Profezia privata, facendo seguire, sempre sui social, una sequela di post-segnalazioni sotto il nome la cura degli assenti, nei quali ha continuato a repertare gli autori esclusi dalla prima lista. Si tratta, in verità, di oltre centosettanta pubblicazioni (al momento nel quale si sta scrivendo) delle copertine dei libri presenti (così si può ipotizzare) nella libreria di casa, con qualche commento critico. Il listone ha sollevato polemiche, qualche risposta assennata (ad esempio, sul sito Pangea ad opera di Davide Brullo), qualche maldestro tentativo di contro lista (anche del sottoscritto, sempre in ambiente social). Il listone del poeta di Borgomanero si inserisce nella tendenza della critica contemporanea di fare massa, accumulando nomi su nomi, nel tentativo di mappare il possibile.

I blog, le rubriche online e i siti all inclusive che pubblicano e accumulano poeti ormai non si contano. Si tratta, a ben vedere, di una modalità che a partire dal secondo decennio degli Anni Duemila è costitutiva anche della compilazione antologica: La poesia italiana degli anni Duemila a cura di Paolo Giovannetti (Carocci, 2017), L’ultima poesia a cura di Gilda Policastro, (Mimesis, 2021), Mappa immaginaria della poesia italiana contemporanea a cura di Laura Pugno (Il Saggiatore, 2021), ed infine Poesie dell’Italia contemporanea 1971-2021 a cura di Tommaso Di Dio (Il Saggiatore, 2023), per citare qualche esempio significativo. In particolare, queste ultime due antologie, anche se con intenti e metodi di analisi diversi, si offrono come grande catalogo della poesia contemporanea dove il punto nodale risiede più nel metodo di catalogazione che non nei nomi catalogati. La tendenza alla grande antologia che supera i (o fa radicalmente a meno dei) tecnicismi della critica e si allarga al pianeta Terra, in un’immaginaria biblioteca di Alessandria della poesia, trova un punto di arrivo in Dimmi un verso anima mia (Crocetti, 2024). In quest’opera, che sarebbe piaciuta al Borges della Biblioteca di Babele, un racconto fantastico apparso nel 1941 nella accolta Il giardino dei sentieri che si biforcano, i curatori Nicola Crocetti e Davide Brullo hanno cercato di mettere sui comodini degli Italiani un’antologia universale di tutto il globo e di tutte le epoche, dagli inni dell’India antica a Vivian Lamarque, da Virgilio ai canti degli sciami siberiani, da Eugenio Montale a Vera Linder.

In queste operazioni, in un contesto dominato da un’irriducibile scepsi verso i fenomeni poetici, la critica si fa definitivamente compilativa. Vi è da dire che questo approccio ha i suoi predecessori nelle antologie pubblicate nel primo decennio dei Duemila e che hanno tentato di fare il punto sulla poesia italiana fra i due millenni: Passione poesia – letture di poesia contemporanea 1990-2015 a cura di Sebastiano Aglieco, Luigi Cannillo, Nino Iacovella (CFR edizioni 2016), L’evoluzione delle forme poetiche – La migliore produzione poetica dell’ultimo ventennio (1990-2012) a cura di Ninnj Di Stefano Busà e Antonio Spagnuolo (kairòs edizioni, 2013), L’Italia a pezzi – antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre lingua minoritarie tra Novecento e Duemila a cura di Manuel Cohen, Valerio Cuccaroni, Giuseppe Nava, Rossella Renzi e Christian Sinicco (Gwynplaine edizioni, 2014), Antologia della poesia italiana contemporanea (1980-2001) a cura di Ciro Vitiello (Tullio Pironti, 2004), Parola plurale – sessantaquattro poeti fra i due secoli a cura di Gianfranco Alfano, Alessandro Baldacci, Cecilia Bello Minciacchi, Andrea Cortellessa, Massimiliano Manganelli, Fabio Zinelli, Paolo Zublena (Luca Sossella editore, 2005).

Pur considerando intenti e approcci parzialmente diversi (L’Italia a pezzi vuole mappare la poesia dialettale, Passione poesia mira a offrire un dialogo fra autori e critici, affidando ogni poeta alla cura di un critico diverso), queste antologie sono accomunate da alcune caratteristiche: un numero amplissimo di voci che superano sempre, e in alcuni casi ampiamente, le cinquanta; una quantità ristretta di testi per singolo autore; infine un apparato critico ridotto, finalizzato più a giustificare una scelta che a orientare il lettore. Tuttavia, l’elemento qualificante di queste operazioni antologiche è la logica della lista che tanto è più ampia e inclusiva, tanto più dà valore al libro che fin dal titolo, altisonante e assoluto, si propone come una refertazione totale se non definitiva. Si tratta a ben vedere di una mutazione genetica (Pasolini l’avrebbe definita antropologica) della forma antologia che da luogo di dibattito critico e strumento costitutivo di un canone, ridotto nei nomi e teso alla storicizzazione, si trasforma nella forma catalogo, in uno schedario che in alcuni casi deve affidarsi proprio all’ordine alfabetico o alla provenienza geografica per sistemare gli autori nel corpo del libro. Non è un caso che le polemiche e le critiche maggiori a queste operazioni vengano soprattutto dagli esclusi e dai fuori catalogo che, con una certa dose di rabbia e livore, non colgono (perché il più delle volte non vi è) una motivazione critica alla loro esclusione.

Quanto sta avvenendo nel secondo decennio dei Duemila si pone ad abissale distanza, se non in contrapposizione, rispetto a quanto accaduto tra la fine del Novecento e i primissimi anni Duemila, con le antologie così dette “generazionali”, cioè quelle operazioni critiche che – con particolare riferimento alla generazione dei poeti nati negli Anni Settanta – cercavano di delineare tendenze e far emergere nuove voci, senza la pretesa di compilare cataloghi infiniti e definitivi: Lavori di Scavo (railibro.it, 2005) e L’Opera Comune (Atelier 1999) a cura di Giuliano Ladolfi, i poeti di vent’anni (Stampa, 2000) a cura di Mario Santagostini, I cercatori d’oro (La nuova Agape, 2000) a cura di Davide Rondoni, Nuovissima poesia italiana (Mondadori 2004) a cura di Antonio Riccardi e Maurizio Cucchi, Oltre il tempo. Undici poeti per una metavanguardia (Diabasis, 2004) a cura di Gian Ruggero Manzoni, Samiszdat (Castelvecchi, 2005) a cura di Giorgio Manacorda, Conatus (Bamako Editore, 2005) a cura di Lorenzo Giuggioli e Simone Molinaroli. A queste opere si aggiunge qualche anno più tardi Il miele del silenzio – Antologia della giovane poesia italiana a cura di Giancarlo Pontiggia (Interlinea, 2009) che raccoglie 18 voci di poeti nati negli Anni Ottanta e dunque successiva alla generazione dell’Opera comune. L’antologia di Pontiggia è l’ultima – a notizia dello scrivente – così detta “generazionale”; successivamente questo criterio viene sostanzialmente abbandonato, almeno con riferimento a un decennio determinato di nascita. Si tratta di operazioni antologiche che avevano sì un criterio di scelta extra-letterario come quello anagrafico, ma che si concentravano su un numero relativamente esiguo di autori aggregati per una visione comune, un progetto di scrittura condiviso e una rinnovata fiducia nel mezzo poetico. Volendo immaginare, con un certo grado di fantasiosa approssimazione, un momento di cesura fra le diverse modalità compilative (escludendo l’antologia di Pontiggia), questo può essere trovato fra il 2004, anno di pubblicazione da parte di Mondadori dell’antologia Nuovissima poesia italiana, e il 2005 con l’uscita di Parola plurale. La prima includeva 18 autori, la seconda ben 64, accedendo, quindi, a quella modalità compilativa propria del catalogo.

 

II) le ragioni di una crisi

Come siamo arrivati alla poetica delle liste? I motivi sono diversi e non sempre di facile individuazione. Viviamo nell’epoca della grande abbuffata, del «narcisismo soffocante che pervade l’ambito poetico, ma di più, l’intero sistema culturale italiano» come scrive Matteo Bianchi (in Nazione Indiana, il fraintendimento del reale, 18 gennaio 2024), dove tutti sono autori e grandi poeti. In questo senso, al di là delle aspettative di chi come «Atelier» e la sua redazione vedevano possibilità di rinnovamento da parte di una generazione decisiva, capace di troncare di netto con il secolo passato, il Duemila ha riproposto un Novecento omogenizzato ed emulsionato, livellato su una media res poetica che taluni definiscono mediamente buona, ma della quale riconoscono l’assenza di picchi e voci di rilievo. Le grandi liste altro non sarebbero che la confezione formato famiglia di questa pappa emulsionata di versi, dai bassi valori nutrizionali, ma dall’alta digeribilità. Era già Alfonso Belardinelli nel 1984 (citato nella prefazione di Parola plurale) ad affermare come «nessun catalogo, nessuna bibliografia, e tantomeno nessuna antologia potrebbe ormai contenere il mare della Nuova Poesia Italiana. Nessun Ercole dell’informazione e della critica potrebbe venire a capo di questa Idra dalle mille teste». Del resto, sono gli stessi critici e curatori a premettere nelle loro prefazioni tale impossibilità di ridurre a unità la massa pulviscolare degli autori, a riconoscere l’assenza di una forza di gravità che consenta di aggregare e, quindi, vagliare le pagliuzze di metallo nobile in mezzo alle voci tutte diverse che si levano dalla torre di Babele ormai in disfacimento della poesia. Il catalogo, la lista gigantesca sembrano essere non una delle soluzioni, ma l’unica possibile. Si deve, allora, (provare a) domandare il perché di questo stato di cose, se non lo si vuole chiamare degrado, che coinvolge autori e critica.

Un fattore è da ricercare nella chiusura circolare della scena poetica. Poeti e critici coincidono in una percentuale vicino al cento. Dopo i grandi critici del secondo Novecento, le generazioni successive a quella di Stefano Giovanardi (1949) e Giorgio Manacorda (1941), con difficoltà si contano professori o critici militanti che non siano anche poeti. Lo stesso dicasi per chi legge versi o chi attende a festival e premi: vi è una coincidenza fra chi scrive e chi legge (o almeno dovrebbe farlo). I listoni (rectius le antologie catalogo) trovano, quindi, fondamento proprio nella prossimità di conoscenza fra poeti critici: si include chi si conosce, si inseriscono i testi di coloro i cui libri sono – a volte per ragioni fortuite – nei propri scaffali di casa, si antologizza chi si incontra nei festival o più facilmente coloro che appartengono agli stessi blog. In questo senso, a venirne a capo di «questa Idra dalle mille teste» sono gli algoritmi dei social e dei motori di ricerca che propongono un poeta in luogo di un altro. La circostanza rilevante è che i poeti, stretti gli uni agli altri nel tentativo di rendersi reciprocamente visibili, si ignorano totalmente quando si scende nel campo dei versi, di quello che si scrive, di come si scrive e più in generale nel terreno dei testi che dovrebbe essere l’unico punto di partenza e arrivo di ogni percorso letterario e, soprattutto, di ogni confronto critico. Di fatto pur appartenendo allo stesso blog o alla stessa antologia, nessuno legge nessuno. Nel mondo della poesia contemporanea dove non si legge ma si accumula, “uno vale uno” ed è percepibile a pelle l’imbarazzo nell’essere incapaci di proporre nomi e opere normative di un secolo che sta per compiere il suo primo quarto senza essere riuscito a definirsi poeticamente, preferendo invece la lista, il catalogo, gli schedari. In tale contesto è scomparsa qualsiasi forma di aggregazione sulla base di una poetica. Le così dette “linee” sono ormai desuete e impensabili, così come movimenti e manifesti: neoavanguardia, neoorfismo, mitomodernismo, poetica generazionale sono ormai fenomeni che non hanno alcuna presa al di fuori della strettissima cerchia dei loro fondatori storici, e solo il Realismo Terminale sembra avere qualche consapevole adesione al di là dell’orizzonte degli autori raccolti attorno al suo quasi mitizzato fondatore Guido Oldani.

Un’altra ragione dell’attuale condizione (di degrado) della poesia italiana è da trovare nel suo spostamento nel mondo social come luogo privilegiato se non esclusivo di diffusione. Scrive Tommaso Di Dio sempre su Nazione Indiana (ibidem): «Il re è nudo: da almeno cinquant’anni, nessuno studioso serio può parlare di poesia, al singolare, se non in cattiva coscienza. Dopo il Duemila, dopo la radicale diffusione della libertà di presa di parola e dei dispositivi di cattura, di creazione e di riproduzione estetica (social network, YouTube, smartphone ecc.) le tradizioni sono moltiplicate esponenzialmente, multimedializzate e ibridate, in modo talmente vertiginoso e acritico che nessuno può più pretendere di avere la Poesia, né che la lotta per la propria “Poesia SVG” (Sola Vera Giusta) possa avere più valore di quella per un’altra». Il panorama poetico ha assunto una forma pulviscolare attraverso esperienze irrelate dove l’ambiente social – sempre più sostitutivo della carta, delle riviste e delle redazioni –, lungi dal creare fenomeni aggregativi, tende a isolare e separare. Il poeta, atteggiandosi a piccolo influencer in un mondo di simili, finisce per rapportarsi e assomigliare solo a sé stesso. Sempre di più la poesia è diffusa insieme a foto, a volte ammiccanti, alla musica o altri media che cercano di far presa sul lettore poeta scroller di ambienti social, utente di smartphone, riducendo il testo nella lunghezza e nella complessità nel tentativo di accaparrare più like, reactions e commenti possibile. In questo contesto che ricorda i menu dei ristoranti all you can eat, il listone è la conseguenza critica di un atteggiamento ancor prima che una conseguenza letteraria. È doveroso chiedersi se l’incapacità di “fare nomi” di poeti normativi candidati a rappresentare il primo ventennio dei Duemila sia, quindi e soprattutto, una derivata di questa pulviscolaritá che trova nei mezzi di diffusione online e negli atteggiamenti e nelle modalità di utilizzo di questi la sua ragion d’essere, prima ancora che in fattori squisitamente poetici e letterari. Sta di fatto che dopo i nomi della generazione di Cucchi e di De Angelis, si fatica a trovare percorsi decisivi e soprattutto normativi: non vi è concordia per la generazione sommersa, come icasticamente definita da Temporelli (rectius Marco Merlin), regna il caos per le esperienze successive.

 
III) internet, scritture, ibridazioni

Davvero il rapporto fra poesia e internet è così desolante, connotato da una massa indistinta di poeti, mediamente bravini e mediocri a un tempo, che nemmeno si leggono fra loro? Le cose, forse, non stanno esattamente così. Bisogna, a questo punto, rendere conto di un universo di scrittura che sta nel limbo della poesia.

La critica sembra ignorare con un certo imbarazzo alcuni fenomeni che assurgono agli onori della cronaca libraria. Imbarazza, ad esempio, il successo di pubblico di Franco Arminio, irpino, classe 1960, regista, scrittore e poeta (da ultimo le raccolte Studi sull’amore, Einaudi, 2022 e Sacro Minore, Einaudi, 2023) al quale anche la critica più intransigente non può negare l’epiteto di poeta. Del tutto escluso il nome di Francesco Sole (pseudonimo di Gabriele Dotti) che pure sta negli scaffali di poesia, pluri-pubblicato da Mondadori, comprato e letto da quel pubblico (numeroso) che cerca nella poesia l’emozione ormai bandita dai versi perché sintomo di una malattia, non si sa se venerea o esantematica, chiamata poetichese. L’esperienza di Sole, modenese classe 1992, è emblematica: influencer, producer e poi conduttore tv, raggiunge il successo pubblicando in rete e su Instagram brevi video che hanno nel giro di poco tempo milioni di visualizzazioni. Nel 2017 pubblica per Mondadori la raccolta Ti voglio bene, seguita nel 2018 da #Tiamo, per lo stesso editore. L’imbarazzo verso questo poeta è evidente nella stessa Mondadori che evita di inserire Sole nel catalogo delle collane dedicate alla poesia. La vicenda dell’autore influencer modenese ricorda quella di Gio Evan (pseudonimo di Giovanni Giancaspro), Giorgia Soleri e del più noto Guido Catalano. Nato a Torino nel 1971, Catalano è un blogger, poetryslammer, performer, scrittore di testi di canzoni per band demenziali e per l’agenda-libro Smemoranda. Nel 2016 approda in Rizzoli con il romanzo D’amore si muore ma io no, seguito l’anno successivo per lo stesso editore dalla raccolta di poesie Ogni volta che mi baci muore un nazista. 144 poesie bellissime. Il suo ultimo libro di poesie, pubblicato sempre da Rizzoli nel 2023 Smettere di fumare baciando. 107 poesie senza filtro, contiene alcuni testi (5 per l’esattezza) scritti a quattro mani con Viola. Lo stesso scrittore chiarisce, nella nota che chiude il volume, che si tratta di una collaborazione fatta nel 2017 con un prototipo di intelligenza artificiale di Google al quale ha attribuito il nome Viola, scrivendo con lei i testi a versi alternati. Il mondo della poesia ha sostanzialmente ignorato Catalano e la critica se ne è occupata in modo sporadico, ma sempre in senso estremamente negativo. Scrive Max Ponte sul blog la poesia e lo spirito (Guido Catalano, la poesia alla deriva del 3 novembre 2015): «Guido Catalano rappresenta una deriva della poesia italiana contemporanea che deve essere sottolineata e combattuta. Il “criminale poetico seriale” (definizione con la quale Catalano si è fatto stampare una maglietta per ampliare il suo mercato), il “metro Lialo” dei nostri tempi, può continuare a decorare i diari delle liceali, ma deve essere chiaro che la sua poesia, per quanto la poesia possa essere intesa nell’accezione più ampia del termine, la sua poesia è nel complesso spazzatura».

Le esperienze sopra elencate ricordano quelle degli Insta-poets, poeti nati e cresciuti nei social, soprattutto sulla piattaforma Instagram, e che all’estero annoverano autori di lingua inglese come Atticus (California), Lang Laev (Australia), Rupi Kaur (canadese, di origine indiana) che vantano centinaia di migliaia di lettori. Alcuni di questi (come, del resto, Sole e Catalano) sono anche approdati alla grande editoria, la quale ha potuto effettuare delle previsioni di vendita abbastanza attendibili sulla base delle informazioni (visualizzazioni, condivisioni, reazioni e commenti) desumibili dai social network. Questi poeti associano all’attività di diffusione in rete quella performativa, dal vivo e online, spesso ibridata con altre forme espressive: reel (brevi clip video in formato verticale, condivisi in ambito social), dirette in real time e clip musicali. In particolare, la musica esercita un ruolo fondamentale in questi artisti che non di rado lavorano contemporaneamente alla produzione di testi (che siano parole per canzoni o poesie poco importa) e a quella musicale. Emblematica è l’esperienza della britannica Kae Tempest, nata a Londra nel 1985, artista e performer Hip Hop e Spoken Word con cinque album all’attivo. Laureata in letteratura inglese al Goldsmiths College, Tempest ha pubblicato opere teatrali, un romanzo, saggi e sei libri di poesia (l’ultimo, Divisible by Itself and One è uscito nel 2023), nei quali, fra l’altro, affronta il tema dell’identità sessuale e di genere (in un post su Instagram del 2020, Tempest ha definito se stessa come «trans o non binary», cambiando successivamente il proprio nome da Kate a Kae).

Gli artisti citati non sembrano essere assillati dai giudizi della critica, non si preoccupano di appartenere a un canone, di entrare in una lista, un catalogo, un’antologia, uno schedario. Le distinzioni fra generi letterari e soprattutto quella fra poesia e testi per musica, che ha animato il dibattito critico e sollevato qualche aspra polemica dopo il Premio Nobel del 2016 assegnato al cantautore statunitense Bob Dylan, non sembrano toccarli. D’altra parte, è la relazione con il pubblico – quella che manca ai poeti propriamente detti – a costituire uno degli elementi determinanti delle scelte artistiche. Si tratta di un feedback, di un “nutrimento di ritorno” come dice la traduzione letterale del termine inglese, che costituisce l’occasione e la motivazione del fare poesia, a volte essendone fonte di ispirazione, rendendo, quindi, la performance un fatto costitutivo dell’espressione poetica. Allo stesso tempo internet e i social network non sono (solo) un mezzo che si affianca (o al limite sostituisce) la carta – come accade nel mondo della poesia mainstream – piuttosto diventano un elemento costitutivo del fare poesia, influenzando e modificando il dato formale che dal punto di vista strutturale, del linguaggio e della stilistica è tale perché “nativo digitale” o ancora meglio “nativo social”. Questa mutazione genetica dell’espressione poetica, tuttavia, rende desueta o comunque inutilizzabile la categoria della (neo)avanguardia (che pure aveva lavorato su ibridazioni quali ad esempio la videopoesia), posto che ci si trova di fronte a un’evoluzione naturale che prescinde da sperimentazioni tese a rompere e sostituire consapevolmente i codici espressivi.

 
IV) il futuro della crisi

L’esperienza degli Instan-poets italiani solleva, tuttavia, diverse perplessità. Le ibridazioni con altre espressioni del mondo social e la diffusione dei propri testi su internet hanno come effetto collaterale una riduzione della complessità tematica e del sistema linguistico adottato. Si tratta di testi che fanno leva prevalentemente sul dato emozionale e sull’esplorazione del tema amoroso in senso liquido e plastico, accendendo e spegnendo l’interruttore dello “stare insieme” o del “lasciarsi”, senza soffermarsi sulle implicazioni umane delle relazioni profonde, della complessità del vivere insieme e delle sue connaturate responsabilità. La poesia si riduce a testo di canzone, a libretto di operetta, ad aforisma o frase di diario. Non sfugge a questa riduzione di senso l’elemento linguistico: semantica e sintassi si semplificano aderendo ai registri colloquiali dei clip e dei reel, per rendere i testi idonei allo spazio limitato, fisico e mentale, di post sui social network. Anche la stilistica ne soffre: vengono adottate quasi esclusivamente figure retoriche di ritmo e di parola, con limitatissimo utilizzo di figure di concetto, di significazione e sintattiche.

Questa modalità di scrittura, che potrebbe avere un carattere di ragionevolezza nell’immediatezza di un post su Instagram o Facebook o un breve reel su TikTok, non cambia o evolve quando i versi finiscono su carta. Basti qui qualche limitatissimo esempio tratto dai testi di Sole e Catalano, che tuttavia indicano una modalità e una qualità degradate che si reiterano nel tempo: «ti auguro di trovarla una persona speciale. / Qualcuno che ti porti al mare / anche quando non è più estate» (da #Tiamo, Francesco Sole); «voglio dirti che per me la felicità / è quando non c’è tristezza / e la tristezza è quando non ci sei tu» (da Ti voglio bene, Francesco Sole); «a conti fatti / e mal che vada / t’avrò scritto / una mezza tonnellata / di poesie d’amore / di discreta meraviglia. / Mal che vada / e a conti fatti / te ne sarai fatta poco/ o niente./ Io no/ le rileggerò sorridendo/ mi faranno compagnia/ mi darò dello stupido/ e dello splendido / sbatterò testate al muro / bacerò sulla bocca le nuvole. / Mi innamorerò come piovesse / e pioverò su prati lontani / rendendoli fottutamentissimamente belli» (da poetarum silva, 20 maggio 2014, Guido Catalano).

Come si è osservato nel paragrafo precedente, è la circostanza che questi testi siano “nativi social” a determinare un dato formale difettivo se non degradato. Del resto, si tratta di autori che nascono e raggiungono il successo sul web per poi accedere al mondo editoriale cartaceo, laddove i poeti mainstream compiono (o almeno cercano di compiere) il tragitto inverso, a volte affiancando alla pubblicazione su carta la diffusione in rete, ma in ogni caso non rendendo quest’ultimo canale preferenziale o esclusivo. Come si è visto, tuttavia, tale modalità social dello scrivere e diffondere ha una forza attrattiva nei confronti di tutte le forme e le esperienze poetiche, che tendono conseguentemente a degradarsi, a massimizzarsi nei fenomeni di crisi sopra descritti.

Ciò che qui rileva è che i versi e le frasi degli Instan-poets italiani in nessun caso potrebbero assumere una qualità letteraria e acquisire un valore di definitività capaci di travalicare il momento nel quale sono stati scritti. Appartengono a quella sottocultura social, narcotizzante e depauperata di contenuti, la cui diffusione pervasiva e totalizzante tanto impensierisce sociologi e educatori. Non è escluso che il futuro della poesia possa trovare risorse in queste modalità ibridate di espressione e che la critica prima o poi si troverà a fare i conti con forme di scrittura totalmente nuove, ma allo stato attuale delle cose non si vedono elementi per poter vedere una positiva evoluzione della letteratura connessa all’evoluzione tecnologica dei mezzi espressivi. Tuttavia, le riflessioni sopra riportate dovrebbero portare gli studiosi a interrogarsi in maniera più approfondita di quanto fatto fino ad oggi sul ruolo, sullo stato e sulla natura stessa della poesia. Ci si chiede se questa debba essere trovata ancora, esclusivamente o almeno in parte, nella massa sterminata e indistinta dei poeti propriamente detti, che pubblicano e diffondo testi simili gli uni agli altri, in libri dal formato standard in grado di alimentare il mercato editoriale solo in virtù del fenomeno delle edizioni a pagamento. Ci si chiede se la poesia possa continuare a rispondere a logiche da ristorante all you can eat, dove ci si abbuffa di autori e (pochi) testi contenuti in elenchi alfabetici, schedari regionali, cataloghi da magazzino, dove la critica è spaesata e inerme di fronte all’indistinto e al numero esorbitante di autori. Ci si chiede, soprattutto, se la poesia possa sussistere solo attraverso forme di auto ascolto e auto diffusione, dove poeti-lettori-critici tendono a coincidere in se stessi, al punto che la poesia non è letta e ascoltata al di fuori di questa cerchia autoreferenziale ed esoterica, incapace di interpretare la Storia, cogliere istanze individuali, sociali, estetiche, spirituali, e rendersi comprensibile e immediatamente intellegibile al pubblico, senza ridursi a fatto letterario che non ha più alcuna connessione con la vita reale.

Nell’attuale contesto di crisi è necessario un più grande sforzo intellettuale che si sostanzi nella capacità di interpretare le domande e le sollecitazioni che da sempre l’umanità ha affidato alla letteratura e alla poesia, prima che lo facciano in maniera definitiva algoritmi e tecnologie.

Luca Benassi

 
 

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