Michele Paoletti intervista Silvia Rosa
In questi testi Silvia Rosa ci parla di un dolore vivo, presente come le nuvole premurose che la seguono in corteo, come una reliquia, qualcosa che rimane piantato nel profondo mentre, nonostante tutto, la vita riprende e torna la voce. Il sole si frantuma, il mondo e le cose intorno reagiscono con la solita indifferenza ma un mondo finisce lasciando tracce fatte di marmo e di perla. Unica certezza è lo scorrere dei giorni di paura in paura, raccogliendo frammenti di ciò che è stato e lasciar germogliare un piccolo bosco / d’inverno […] dentro le vertebre e in bocca. Anche i desideri si sono esauriti, solo la certezza di un ritorno, un abbraccio futuro che ci mantiene in vita nel dolore, un nome pronunciato in segreto che riallaccia i fili con un passato in cui ogni sguardo era limpido, ancora / non conosceva la fine.
In questi testi l’immagine della nuvola è sempre legata ad un passato felice.
In effetti, le nuvole mi fanno pensare a momenti di gioia, alle piccole meravigliose epifanie dell’infanzia, quando mi dilettavo a trovare nella loro forma cangiante immagini conosciute, che attraversavano in mille metamorfosi il cielo. Era un gioco segreto, che all’epoca condividevo solamente con un bambino più piccolo di me, al quale ero molto affezionata, il mio vicino di casa. Abitavamo all’ultimo piano di un palazzone di periferia, i nostri balconi erano adiacenti, il quartiere di un grigiore mortifero, e non c’era nessun rifugio sicuro nelle voci che ci richiamavano all’interno dei nostri appartamenti asfittici, avevamo in comune storie difficili e una serenità sbeccata che ci faceva sentire minuscoli. Ma quel gioco, quel nostro gioco, era una pausa da tutto e da tutti, una sorta di ricompensa che ci donava il cielo per riscattare almeno in parte i nostri anni teneri, schiacciati da troppe preoccupazioni. Facevamo a gara a chi scovava le forme più originali ed era tutto un convulso elenco, sciorinato con eccitazione, che passava dai nomi di cose agli animali alle persone seguendo la mutevolezza del vento. Questo gioco era però anche una potente metafora di come tutto si trasformi di continuo, di come anche i volti più familiari possano all’improvviso diventare sconosciuti, era di una malinconia struggente l’estremo saluto a una nube che si congedava smagliata e anonima, un esercizio che preludeva in un certo senso alla fine della nostra infanzia, non solo per via dell’età anagrafica che avanzava svelta, ma anche e soprattutto per il nostro sguardo macchiato sempre più da ombre e buio. Dunque le nuvole per me sono un simbolo, bianchissime e irraggiungibili, sono l’incarnazione stessa della necessità di trasformazione a cui ci costringe l’esistenza, e anche il filo di cotone morbido che ci tiene legati al nostro esordio nel mondo, a quel cielo popolato di presenze benevole che ci salutano mute, prima che la realtà irrompa e una crepa sottile si faccia strada fino al cuore, per schiuderlo in mille pezzi.
La vita ci costringe spesso a sopravvivere al dolore, a convivere con esso. E la poesia?
La poesia è per me il luogo della cura, in cui narrare e ridefinire quel dolore, o qualsiasi altro sentimento, in cui provare a mettere insieme tutti gli elementi della realtà creando una composizione inedita, una nuova prospettiva, una differente interpretazione degli stessi, – a partire dal proprio personale punto di vista – un mondo distinto che non è mera evasione, ma capovolgimento salvifico e illuminante. La poesia è anche il luogo della memoria e dell’incontro, in cui le storie così riscritte e narrate sono consegnate allo sguardo di chi le legge e decide se farle proprie o meno, identificandosi in esse, prestando loro una voce altra che le rinnovi e le tenga in vita. Quindi,nel momento in cui si scrive poesia e si mette nero su bianco qualcosa, ecco che quel qualcosa non è fissato immobile sulla carta, non resta identico a se stesso, non inchioda il sentire anzi lo libera, perché tutto in poesia assume un’esistenza autonoma, misteriosa, e si mischia alle infinite declinazioni del dire e del dirsi, diventa una narrazione corale, condivisa, universale. La poesia non è fuga dal dolore, dalla realtà, dal mondo, è piuttosto una modalità di abitarli, di imparare a conoscerli, di nominarli, di trasformarli, è la disciplina della parola che aiuta a non soccombere dentro certi feroci silenzi, che divorando lingua e occhi lasciano senza fiato e senza scorci d’orizzonte, inchiodati per sempre alla propria fine, nonostante lo scorrere del tempo.
Numerosi sono i riferimenti a stelle, astri, comete come a marcare una distanza e un passato irraggiungibili.
Mi ha sempre affascinato l’idea che nell’universo il tempo assuma una dimensione così dissimile dal nostro quotidiano, che la durata delle nostre vite sia cosa insignificante se paragonata a quella dei pianeti e delle stelle, che l’immagine degli astri ci giunga in ritardo di migliaia di anni, che esistano dimensioni parallele a noi inaccessibili in cui il tempo ha un’altra consistenza. Guardare il cielo popolato di presenze luminose mi inquieta, mi fa sentire quanto fugace sia l’esistenza umana. Le stelle che noi osserviamo sono immagini del passato, come vecchie fotografie, si palesano com’erano prima di giungere al nostro sguardo, non come sono nel loro presente per noi (quasi) inaccessibile. Hanno due esistenze, quella che noi percepiamo da quaggiù, e quella che va avanti o si è già spenta in un altrove lontanissimo. Anche il passato è per noi la componente del tempo che possiamo mettere più a fuoco, in quanto già definita, e forse per questo gli rivolgiamo così spesso la nostra attenzione. Mi sembra che il passato sia un cardine intorno al quale insistiamo a ruotare avvitandoci su noi stessi, a volte per tutta una vita, da cui continuiamo a rimanere sedotti, in trappola, pur non avendo nessuna possibilità di esperirlo ancora, se non nel ricordo. Come le stelle, che spiovono luce nelle notti buie, il passato è lì con tutta la sua parvenza di immutabilità, sembra di poterlo sfiorare invece è inavvicinabile, popolato da voci che ci arrivano in un’eco affievolita. È conchiuso in sé, eppure le parole ci suggeriscono che è plasmabile nel suo senso più profondo, perché possiamo rielaborarlo alla ricerca di nuovi significati, è dunque un varco che ci proietta immediatamente nel futuro, perché il modo in cui nel qui e nell’ora lo consideriamo influenza il nostro presente e ci orienta, come una stella polare, in una direzione piuttosto che in un’altra: il passato può essere la radice della nostra progettualità. E allora, forse, il peso della sua distanza siderale può diventare più sostenibile.
QUELLA VOLTA
Quella volta che il sole
è caduto per terra
con uno sparo di voce
al centro al cuore
dentro la sua stessa luce
colpito forte, sembravano
lucciole le schegge
che mi cascavano tra i capelli
legati in un nodo,
sembrava la fine di un mondo
ma poi la vita riprende ‒ così dicono ‒
solo meno luminosa e
un poco più fredda, scomoda,
la voce torna ai suoi silenzi
collusi con le ombre, torna
a non dire a dire a metà
a farsi lieve vento tra le nuvole
che da quella volta mi seguono
premurose, in fila
non ho capito se in un corteo funebre
o per darmi l’illusione di essere ancora
una sposa ancora la stessa di prima
‒ in attesa sempre ‒ ancora viva.
RELIQUIA
È così che ricordo il tuo corpo
‒ sole minuscolo ingoiato
da un cielo di lucciole e assenze ‒
come candido marmo, una perla
screziata di buio per ogni silenzio
che custodisci con le mani di neve
Pochi giorni, le creste spampanate
dei soffioni turchini che si agitano
in questa distanza al rallentatore,
di paura in paura, e tu sei una statua
bellissima, terribile, senza occhi
né voce, reliquia del mio desiderio
Voglio tenerti‒ un ossicino traslucido
una ciocca di capelli velluto
una goccia di sangue carminio
anche un dentino per la fata che sono
quando ti rubo il respiro ‒ contro il mio cuore
o nella teca dell’ombelico, voglio che
l’odore di muschio che ti sboccia umido
in un’ombra del collo mi si arrampichi
addosso, lungo la schiena
Quando tornerai ad abbracciarmi
avrò cresciuto un piccolo bosco
d’inverno, bianchissimo,
dentro le vertebre e in bocca.
10 AGOSTO
Se vedessi una stella cadere
nel cielo notturno d’agosto
una stella vissuta un milione
di secoli fa, il suo ricordo uno sciame
lumino che si sgretola un poco
come fa la memoria quando viaggia
correndo per campiture celesti,
non le chiederei nulla, nessun desiderio
da realizzare, ma pronuncerei sottovoce
il tuo nome ‒ un’orazione segreta ‒
perché da molto lontano
da un tempo infinitamente distante
è tornato a trovarmi:
in un’altra galassia, in un universo fratello
miliardi di tramonti passati,
c’era una piazza in cui si affacciavano
nuvole di un bianco cangiante
e noi al centro di quel candore sospeso
allora, tutte le parole erano messe a tacere,
solo le mani si accendevano ‒ comete irrequiete ‒
e ogni sguardo era limpido, ancora
non conosceva la fine.
Le poesie sono tratte dalla raccolta inedita “Tempo di riserva”