de Vos, magnifico sarto di corpi


De vos, magnifico sarto di corpi. Con queste parole Manlio Sgalambro aprì Il giardino persiano di Arnold de Vos (Samuele Editore 2009). A queste fece eco Luca Baldoni nel saggio introduttivo a Stagliamento (Samuele Editore 2010, finalista al premio Alfonso Gatto 2010, Premio Irene Ugolini Zoli 2010) dove, riferendosi tra le altre cose a quella straordinaria antologia da lui curata (Le parole tra gli uomini, Robin Editore 2012 e 2016, presentata anche a Una Scontrosa Grazia nel 2016) al tempo ancora in preparazione, scrisse:

Gli amori esclusivi e ossessivi di de Vos, esplicitati nelle dediche alle raccolte, sono assai distanti dai mondi di incontri anonimi e seriali, e si situano in un solco che ricorda piuttosto lo Stil Novo o i sonetti di Shakespeare.

 

Io stesso, prima del nostro rapporto di collaborazione editoriale, ricordo scrissi una postfazione a un precedente volume di Arnold (Ode o la bassa corte dell’amore, Puntoacapo Editore 2009, prefazione di Adele Desideri) dove mi rileggo:

È la penalizzazione che la vita reca e la necessità forte e bruciante d’un amore che sia in qualche modo salvezza, pur senza tradire la propria natura, ad essere la genesi prima e ultima di questi versi che altro non sono che un percorso di lettura dell’esistenza/insistenza, dell’autobiografia scavata sempre più a fondo, dell’attimo assoluto che è sempre e in qualche modo presente. E che è compito del poeta trarre dal fondo di sé e cantare, prima che narrare.

 
 

In questi giorni ho trattato in diversi ambiti di linguaggio e poesia (dall’articolo su Davide Brullo alla recensione a Daniela Pericone al pezzo sull’attacco di Andrea Ponso a Isabella Leardini) e qui voglio tornarvi un’ultima volta, in quest’ipotetica mappa di riflessioni sparse, perché de Vos oggi insegna una cosa molto importante.

 
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Innanzitutto parliamo di date, anche solo restando nell’ambito delle pubblicazioni Samuele Editore (che sono state le ultime per Arnold): Il giardino persiano è del 2009, Stagliamento è del 2010, L’obliquo è del 2011. Stiamo parlando di un autore attivo non più di dieci anni fa. Eppure quell’approccio assolutizzante, autocorrosivo, disperatissimo e luminoso del poeta con la parola e il corpo della parola (e della vita) pare essere distante secoli da noi.

Era Arnold fuori luogo a innamorarsi perdutamente di un ragazzo bellissimo (nella vita un gigolò, edulcoro il termine anche se così improprio, trentenne distrutto dal sesso e che doveva supplire chimicamente)? A entusiasmarsi per un pranzo con una ragazza ucraina a parlare di massacri politici, cannibalismo per fame, disperazione degli uomini contro gli uomini?

Il rapporto di Arnold con la poesia era il rapporto di un sopravvissuto alla vita. Era un’estasi cancerogena che cercava l’ideale di bellezza, di purezza, in un modo che non la ricorda più. Arnold aveva molto di Baudelaire nel suo approccio con il mondo. Il bisogno di osservare una perfezione così alta da essere irreale, il bisogno di un’epifania in una vita povera non a livello di individuo ma di mondo.

 
 

C’era un profondissimo senso del sacro in Arnold de Vos. A parte l’amore per la cultura orientale, Sufi, il suo sguardo estatico verso un ragazzo bellissimo assomigliava tremendamente all’epifania dantesca nella visione di Dio. E quell’amor che move il sole e l’altre stelle in Arnold diventava una sorta di Amor che salva il sole e l’altre stelle. Ma in questo caso di che salvezza stiamo parlando?

 

Arnold ne L’obliquo raccontò, nella sua prefazione autobiografica (ricordo discutemmo a lungo sull’inserimento o meno di questo pezzo, cosa che mi trovava contrario, ma alla fin fine accettai per concludere un’ideale trilogia editoriale con lui), che si innamorò di Thiago (il ragazzo bellissimo) nel maggio 2008, ma che non fu il primo ragazzo di cui si era innamorato.

Non ho figli, e non era la prima volta che mi innamorassi di un ragazzo. O di un uomo, dato che da bambino ero un ragazzo precoce. La prima volta mi ha lasciato un senso di colpevolezza durato a lungo, più che altro per la circostanza che si trattasse di un soldato tedesco colto sul fatto, che si stava masturbando invece di fare la guardia lungo la linea di demarcazione dello Sperrgebiet nella mia citta natia (l’Aia) occupata dalla Wehrmacht.

 

La definizione di salvezza che ho introdotto poc’anzi la ritroviamo sempre in L’obliquo, tra le parole dello stesso Arnold:

L’amore è un simun che torna a soffiare periodicamente: insabbia le rovine del passato, ne scoperchia altre e le pulisce a fondo. Pensavi di non aver lasciato tracce sulle tue carovaniere, ma le lastre sotto la sabbia sono lì a usurare lo zoccolo ai cammelli. Il deserto è la poesia del nudo e della lontananza, la cruda separazione. […] Sono un incamminato che passa l’esistenza girando in tondo intorno a un vuoto d’amore che ha nome di ragazzo, in grado di appagare solo se stesso quando si dà. La ricaduta non è da poco, di questa Carità romana. La dipendenza che crea, il volano della necessità di esprimersi in versi, condiziona la prosa della vita di ogni giorno del poeta, con il suo bisogno di icone per la sua santeria.

 

Devo ammettere che trascrivere questi estratti dai pochi libri rimasti in redazione mi spinge quasi al pianto, tanta è la commozione. Mi rendo conto (chi legge perdonerà una piccola confessione inappropriata in una recensione) di quanti debiti io stesso abbia nei confronti di questo grande uomo e grandissimo poeta. Il mio Condominio S.I.M., pubblicato da Maurizio Cucchi nella collana di Stampa 2009, scopro oggi avere la sua interpretazione dell’amore, del vuoto dell’amore che è bisogno di luce e corpo, di verba e sesso, di estasi. In un mondo di bugie, tradimenti, superficialità, anonimato, intercambiabilità.

 

Torno alle straordinarie parole di Luca Baldoni:

Per quanto riguarda più nello specifico l’omosessualità di de Vos, essa rientra nella tradizione di un rapporto ossessivo con un giovane uomo di suprema bellezza e erotismo, icona di un amore che “in qualche modo sia salvezza” dalla “penalizzazione che la vita reca” (Canzian, postfazione a “Ode o La bassa corte dell’amore”). Se confrontiamo questo dato con la tradizione gay italiana maggioritaria sino a un ventennio fa, esso appare piuttosto isolato. Dalla poesia di Penna, Pasolini e Bellezza, ma anche da quella di Bona e Naldini, siamo abituati a un’omosessualità strutturalmente promiscua che rifiuta il rapporto di coppia e mitizza la diffusa benché clandestina facilità di incontri sessuali tra uomini nell’Italia degli anni Quaranta e Cinquanta.

 
 
Qualche appunto imperfetto sulla Poesia di Arnold de Vos

Arnold de Vos è stato un poeta che tornava all’amore come azione del sacro che costruiva l’altezza del verso sulle forme carnali della persona amata. Consapevole comunque della non reciprocità del rapporto. Thiago poteva solo soddisfare se stesso, eppure Arnold aveva bisogno di quel vuoto d’amore (e mio Dio… mio Dio… ora perché io stesso ho scritto anche il vuoto / dice la forma che ha lasciato) e lo creò e ricreò.

La domanda fondamentale è una: per cosa?

Questa domanda misura la distanza, la demolizione del linguaggio, dei contenuti, che è avvenuta negli ultimi dieci anni (ma non solo) nella letteratura italiana. Quando tutti vogliono essere poeti e tutti vogliono decidere cosa sia la poesia, quando tutti hanno una medesima voce a prescindere dalle competenze o anche solo dallo spessore umano (positivo o negativo che sia) questo succede: non è più la vita al centro, ma l’autore. Un autore, tra l’altro, che la maggior parte delle volte è un mediocre acclamato da mediocri.

 
 

Arnold de Vos ci insegna che il focus della poesia è un linguaggio che è modus vivendi, che è salvezza non di sé ma dell’idea utopica in un mondo misero, che la poesia non è rapporto con gli altri ma estasi viva e pulsante quanto bella e sporca in una vita disperata. Che è il soldato che si masturba in un mondo in guerra, e in quell’atto dissonante fa scoprire una bellezza naturale, intima, sconvolgentemente umana. Quanto il vuoto che rappresenta e a cui condanna l’intera vita del poeta.

Una poesia per sopravvivere, che oggi abbiamo dimenticato per mettere al centro la blanda promozione del superficiale, del sé, per quindici minuti. Per far contenti i molti all’insegna di una falsa idea di democraticità, a discapito del vero.

 

Alessandro Canzian

 
 
 
 
Il giardino persiano
 
È un paradiso in terra
il tuo simmetrico corpo
per cui la mano vaga
senza necessariamente scegliere
se tu la lasci andare
per vene d’acqua e strade bianche
in corrispondenza delle qanate sotterranee
e i pozzi d’ispezione a fior di pelle.
Che marezzarsi di colline e verzure
rosee, ondivaga prora
che animi il mar del cielo:
‘Se c’è un paradiso sulla faccia della terra,
è qui, è qui, è qui.’
 
da Il giardino persiano
 
 
 
 
 
 
Rassegnata elegia
 

a G.G.M.

 
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Esci sul prato.
I muri danno calci alle finestre
per vedere come il tuo nudo vestito
s’accordi con la baia del bosco
nella quale scalci per l’erba alta
tigrato dall’ombra dei rami
sotto il sole lionato mentre il safari degli sguardi
ti supera che ti dirami e
schivando la polvere che si leva fulva
mi degni di uno sguardo.
 
da Stagliamento
 
 
 
 
 
 
Negli interstizi dell’essere
 
Negli interstizi dell’essere
si pongono le mie nicchie
illuminate da statue
di corpi belli. Colosseo e cloaca
a distanza ravvicinata,
solo che io non cammino
in questo circo massimo
di cui raccolgo le schegge
delle statue murate.
 
da Stagliamento
 
 
 
 
 
 
Alfa e Omega
 
Primo Innamorato della storia,
ti ha plasmato secondo i suoi desideri,
cioè a sua immagine e somiglianza
e t’insufflò il proprio soffio di vita,
con cui hanno cominciato a correre gli anni.
L’ennesimo innamorato della storia,
tornato al primo amore
non avrà la forza creatrice dell’origine
ma come condannarlo se l’imitazione lo spinge
a sentirsi bello al tuo cospetto, Adamo,
dovessi essere l’ultimo uomo della storia?
 
da Stagliamento
 
 
 
 
 
 
CAUTES e CAUTOPATES
 
Appartieni al mondo delle apparenze
come me: siamo fiaccole passanti
che diamo una parvenza di luce alla pelle del mondo.
Sento però sfiaccolare la tua torcia
allampanato dalla sua vampa
che sublima il mio essere
evanescente fino a portarlo sulla soglia della notte
per la tua lucentezza incisiva su di me
che non mi ero mai dato la briga di brillare
di luce propria, prima di abbassare la faccia
e inabissarla nell’oscurità montante del mondo.
 
da L’obliquo
 
 
 
 
 
 
Hortus artium
 
Si diventa pazzi per non avere una storia
narrabile: l’inenarrabile e l’indicibile
entrano in rivolta contro la prosa della vita
che fin quando la domina, volta la poesia
in una sistemica bugia.
 
da L’obliquo
 
 
 
 
 
 
Infanzia breve
 
Preparato male all’amore ma
esasperato da un’infanzia precoce,
vidi i tuoi pari venirmi vicino
e ci baciammo. Da allora
mi sentivo dispari.
 
da L’obliquo