Verso la rovina del risveglio – Federico Federici



 
 
 
 
Non trova spiragli
chi punta il respiro
contro il segnavento.
 
Inutile ripeterlo:
moriremo in silenzio
saremo i soli
gli ultimi a saperlo.
 
 
 
 
Wer den Atem
gegen die Windfahne richtet
findet keinen Lufthauch.
 
Zwecklos, es zu wiederholen:
wir werden stillschweigend sterben,
wir werden die einzigen sein,
die letzten, die davon erfahren.
 
 
 
 
 
 
Di chi le palpebre
sbattono e sbattono
sopra soglie di luce?
 
Di chi più profonde
ferite, le porte
che sempre di più
sbarrano il passo?
 
Un leggero morire
accarezza la cosa pensata.
 
 
 
 
Wessen die Lider
die schlagen und schlagen
an Schwellen des Lichts?
 
Wessen die Tieferen
Wunden, die Türen
die wieder und wieder
due Wiege versperren?
 
Ein leichtes Sterben
streichelt Gedachtes.
 
 
 
 
 
 
Si addensa il silenzio all’orecchio
del mondo che si dichiara udibile
mondo indistricabile
delle cose mai dimostrate, taciute.
 
Si stirano le tue meningi
verso la rovina del risveglio.
 
La neve che ti volteggia innanzi
acquieta il canto dei pensieri.
 
 
 
 
Die Stille ballt sich um das Ohr
der Welt, die sich hörbar erklärt,
die nicht entwirrbare Welt
des ohne Beweis Verschwiegenen.
 
Deine Hirnhaut dehnte sich
zum Verderben des Erwachens hin.
 
Der vor dir schwebende Schnee
stillt den Gesang der Gedanken.
 
 
Federico Federici, Misura del sonno (e altre ricerche verbovisive) (Anterem Edizioni, 2021)
 
 

La soglia da cui scaturisce la parola di Federici, in questi testi, è quella liminare tra coscienza della veglia e incoscienza del sonno, pensiero figurativo e nominazione del linguaggio; in qualche modo questi elementi interagiscono e si fondono, rendendo incerte le loro qualità o, meglio, non definite, dal perimetro sfumato, consentendone una parziale e progressiva contaminazione.

In questo percorso, ulteriore elemento di rilievo è l’utilizzo della lingua tedesca, che non si concreta in una mera traduzione – anzi, l’autore in nota chiarisce che è il linguaggio originario dei testi – ma è punto di partenza per una successiva interazione tra le diverse versioni, in un inseguirsi continuo di assonanze, suggestioni e ridefinizioni: si potrebbe dire che si è di fronte ad un’opera unica con diverse declinazioni e sfumature linguistiche.

Il registro adottato è sostanziale, esangue ed essenziale, frutto di un procedimento di sottrazione; sin dal primo testo in esame, costruito intorno al verso “moriremo in silenzio”, si ribadisce quanto sia vano dirlo e “inutile ripeterlo” – nonostante venga fatto – circoscrivendo tale verità, appunto, a un silenzio effettivo, successivo al linguaggio e all’esistere, che ne rappresenta un termine conoscibile solo a chi lo esperisce, in solitudine e come traguardo estremo (“saremo i soli / gli ultimi a saperlo”).

Il testo successivo si concentra sul sonno e il pensiero, in una suggestione che sembra alludere a una perdita del senso dell’individualità, nello smarrirsi completo nel sonno della coscienza (“Di chi le palpebre … Di chi più profonde / ferite … ?”) ricordando non solo al lettore certi passaggi di “Ora serrata retinae” di Valerio Magrelli, ma anche l’epitaffio di Rilke, dove la rosa viene definita il “Piacere / d’essere il sonno di nessuno / sotto infinite palpebre”. In qualche modo la chiusa conferma tali suggestioni, riconducendole a un senso di dissolvenza sereno, accogliente e fatale (“Un leggero morire / accarezza la cosa pensata”), ribadendo il collegamento tra pensiero e coscienza e tra sonno e morte, già chiaro sin dalla mitologia greca, in cui erano raffigurati come fratelli gemelli.

L’ultimo testo presenta il mondo come “udibile” ma allo stesso tempo “indistricabile”, con l’effetto di un silenzio che “si addensa … all’orecchio”: quella del risveglio viene raffigurata come una “rovina”, verso cui “si stirano le tue meningi”, mostrando in qualche modo il mondo reale e quello della coscienza come più gravoso, di minore conforto: eppure la realtà naturale (“la neve che ti volteggia innanzi”) e la sua percezione diretta, concreta, sensoriale, è in grado di pacificare “il canto dei pensieri”, quegli stessi pensieri che accarezzavano ogni cosa con “un leggero morire”. In ultima istanza sonno e risveglio, vita e morte, si compenetrano in un intreccio di apparente conflittualità e contraddizione, che si risolve infine in una prospettiva di senso che non va necessariamente nominata, ma suggerita ed esperita direttamente.

Mario Famularo