La mano che scrive il suono – Marco Conti


La mano scrive il suono, Marco Conti (Archinto, 2021)

“Qui la terra sembra godersi il suo abbandono” è una delle molteplici e sfaccettate percezioni che affiorano lungo la lettura dell’opera “La mano scrive il suono” di Marco Conti, Archinto Edizioni. Non si tratta di una semplice, frammentata raccolta poetica, come suggeriscono Flavio Santi nella prefazione e lo stesso autore nella nota finale: è un libro di poesia che manifesta tutta la sua unitarietà concettuale e sensoriale nell’affondo consapevole nel tempo della scrittura e nei tempi dell’etica umana contemporanea, scanditi entrambi da quel suono originato dal moto e dalla poiesi della mano, anch’essa umanissima.

La conoscenza delle misure del quotidiano appare sfuggevole e da questa incertezza ha origine il canto del poeta, libero nel verso come nella semantica che produce un discorso lineare, intrinsecamente pacato, eretto appena sopra il tormento come una superficie liscia e trasparente da cui si scorge e si contempla il turbinio dell’intuizione della precarietà della vita: “Se chiudo gli occhi/sono in quello specchio,/gli alberi splendidi/il mattino quasi finto,/strappato a qualcosa/che non saprei dire”. Il topos del commiato attraversa i componimenti, per lo più privi di una divisione in strofe, come a voler esprimere il significante – e non solo il significato- di un’alternanza incessabile di esistenza e mancanza, di veglia e di sonno, di amore e d’abbandono. E se il tema sentimentale affiora dalla mutevolezza emotiva della narrazione, è attraverso l’evocazione delle immagini naturali e quotidiane che si innesta a una riflessione di respiro collettivo: “Il ricordo è poco,/nulla il fiato rimasto. Ma liberarmi/svegliarmi da questo sorriso molesto,/la voce limpida,/una mano che scende dentro la mia tempesta”. Si attua una bilanciata fusione fonetica e linguistica della visione d’insieme alla percettibilità dei cenni biografici autoriali, ricreando così un ambiente lirico e armonico in cui si riesce a sopportare la dimensionalità temporale che conduce inevitabilmente al distacco.

Un uso sobrio ed evocativo del correlativo oggettivo rende l’opera di Conti una disamina perpetua – e probabilmente inconcludibile- sull’impossibilità esistenziale che si manifesta nel possibilismo irrisolto e nel costante anelito all’esilio da sé stessi: “Tutto resta nascosto/e scende tra strappi/d’edera sprofonda/inarca come un verso/la fortuna della fuga”. Ecco che, al di qua o al di là delle cinte murarie erette dall’uomo per autofrenarsi, il verso (inteso come direzione o come moto poetico) rende proba o, quantomeno, auspicabile l’evasione che, talvolta, appartiene alla vita, talaltra ne esce silenziosamente.

Il visibilio della mente trasmuta nel corpo della natura (“guardo il muschio/la temperatura sale”), diventa metafora sorprendentemente priva di retorica, si contorce nel ricordo per evolvere in uno spazio che si reitera ciclicamente: “Il paesaggio è ancora ripetuto/è là come un ciottolo/che s’imbianca senza sbiadire” e ancora: “E’ già avvenuto tutto/di stanza in stanza”. L’individuo si ripiega su di sé davanti al suo potenziale (“Su tutto questa libertà/che mi sta accanto/anche quando non voglio”) e, in ogni soglia su cui vacillare, si ritrova a essere “indeciso tra il lutto/o una leggerezza improvvisa”, capace di entrambi e di entrambi sospettoso. “Il mio/è un sonno per tornare” afferma l’autore, in bilico dai bordi sfrangiati di una memoria illusoria e della chimera della speranza in ciò che non è, non è ancora o non sarà mai: affiora una languida nostalgia dall’eco caproniana, dolce nell’intonazione emozionale e drammatica per la sua irreversibilità.

La ricorrente presenza di muri soggiace alla consapevolezza del combaciamento tra realtà molteplici (ma non necessariamente diverse o separate) che si pongono in relazione ma non possono toccarsi. E’ da questa cesura inconscia che nasce l’aspirazione alla frattura del limite: “hai scritto/che l’estate è un varco/nel muro a secco”. Anastrofi e chiasmi movimentano il verso come scosse sismiche ritmanti che sanciscono climax ascendenti e discendenti volti a intonare una narrazione elegante e misurata. “L’ultima cosa è questo soffio/questa guancia/bucata dalla bellezza” è, forse, l’azione estenuata e catartica della poesia che prorompe nella carne, nella lingua e nel tempo umano per accedere all’evento, ancora possibile, della bellezza.

Gisella Blanco

 
 
 
 
Sono uscito veloce
per un momento
lo specchio ha guardato il bianco
le pieghe della camicia.
Mi è piaciuto
non incontrare gli occhi
non sapere quanto tempo è passato.
Potevo scendere
scrollare la terra dai tacchi
ma ho saputo scappare
come una lucertola
sull’orlo verde delle cose.
Se chiudo gli occhi
sono in quello specchio,
gli alberi splendidi
il mattino quasi finito,
strappato a qualcosa
che non saprei dire.
 
 
 
 
 
 
Delle due metà
 
Troppo gracile e delle due metà
rimaste ora sui muri tiepidi dell’inverno
resta la cecità azzurra degli occhi,
l’impronta rarefatta di una gioia
sulla scena del giorno.
 
 
 
 
 
 
La mano azzurra
che il cedro sporge tra le lenzuola,
queste trincee di bosso.
Immagino l’ombra, la mia
nell’erba, come sotto la terra
con piedi esatti corre il doppio
di tanto verde.
Ancora dei gesti, delle ali,
ogni cosa vicina, insensata
e serena. Il sogno verrà
ma è la profondità della luce
che lo nasconde.