Versicidio – Riccardo Delfino


Versicidio, Riccardo Delfino (Terra d’Ulivi, 2023).

Il giovanissimo autore romano Riccardo Delfino torna in libreria con un nuovo libro di poesie, Versicidio, una plaquette pubblicata da Terra D’Ulivi, nella collana Deserti Luoghi diretta da Giovanni Ibello, che si conclude con una corposa postfazione di Vittorino Curci.

A partire dal titolo Versicidio, tra il neologismo e l’univerbazione, l’autore indica quella “necessità” della cedevolezza del verso, del ritrovare la poesia lì dove la poesia muore: all’ultimo stadio del lirismo, oltre qualsiasi cognizione di dolce e di amaro, nella sponda oscura dell’indicibile che può essere solo alluso.

All’incipit della prima poesia, segue una serie numerata di testi febbricitanti che accennano, con un linguaggio incalzante e proteiforme, a scene in cui il dolore è protagonista. Il dolore, però, sembra quasi il viatico, la via maestra, la valvola di sfogo e, insieme, di salvezza del soggetto narrante e, quando è presente, anche dell’altro soggetto della scena, per lo più apparentemente vittima del primo. In questo gioco di ruoli che sembra anche un gioco al massacro, l’apparenza e la realtà si confondono, forse si mischiano: dove finisce l’io e comincia il tu? Si tratta di dimensioni empiriche e fattuali, per quanto parossistiche, o della parabola ascendente di un discorso critico sulla realtà contemporanea? Si legga: “ma io l’assecondo/l’assecondo l’assecondo, godo, piango./È tutto da rifare. La morte è l’unico/amore che posso dare”.

Il fascino della morte come musa votiva e matrigna che infligge dolore allorquando si allontana – tema caro a un certo filone di giovani scrittori come Gabriele Galloni e Mattia Tarantino – torna in questa seconda opera di Delfino con tutto il peso travolgente della ferocia insita nella natura umana. Una ferocia autoinflitta che, poi, per una questione di macabri quanto severi equilibri, si ripercuote anche nelle relazioni, in quell’alterità che non riesce più ad arginare i confini dell’io.

Nella sottile quanto angosciante dicotomia tra l’esistere e l’approssimarsi allo svanire, tra l’essere soggetti percettivi e sensibili e il dover rinunciare – per volontà o per abitudine – alla gamma di sentimenti e sensazioni che storicamente differenziano gli essenti dagli oggetti (“Vergogna?Niente/è la sola emozione/che provo a iosa:/vergogna la prova/chi prova qualcosa”), l’individuo poetante sembra dilaniato tra il disturbante cinismo con cui affronta le piaghe della sua personalità e l’atto di scriverne che fa emergere un’altra necessità, quella di rimanere in contatto con il sé proiettato all’infuori.

Il corpo – quello proprio, l’altrui, non fa differenza – sembra consumarsi in un eterno atto finale, in una perduranza straniante di un momento esiziale, finale e, insieme, salvifico se per salvezza si può intendere anche una sensuale irreparabile perdizione.

Il linguaggio appare come un alter ego possibile dell’individuo, benché non sempre credibile, si snoda nella stessa realtà che crea, nominadola: le parti del corpo, i gesti più cruenti, gli orgasmi, le violenze, il trinceramento nelle ossessioni (presenti, in questi versi, in chiave di rime e assonanze che creano un andamento ricorsivo e percussivo dei suoni), le visioni, l’irrealtà quasi verosimile e la realtà morente sono modi in cui il linguaggio si compie nel soggetto, e non il contrario.

Una mise en scène che lascia il sospetto della dimensione del metateatro dentro la poesia, lì dove non è mai chiaro cosa possa essere vero, cosa possa essere sincero: “Dunque il sangue mi ha mentito:/non c’è modo di educarsi al suicidio”. Un accostamento stilistico – ma non concettuale, perché qui l’esito è diverso – si può fare con i versi più crudi di Alessandra Carnaroli e, naturalmente, con la maledizione del poeta romantico e decadente dell’Ottocento (ça va sans dire, il lessico in quest’opera è ipercontemporaneo).

Nella seconda sezione, “Baricentro”, l’io narrante si espone nelle sue caratteristiche soggettive che, però, risultano sempre generalizzante, astratte nella misura di una loro espansione a soggetti simili ma non uguali, a percorsi di vita accomunabili ma non convergenti: “c’è il mio disarmo c’è lo spazio bagnato/tra i fori del corpo e quelli del marmo,/c’è la rossezza mattutina, non c’è l’alba,/c’è il mio interno che sconfina…”.

La malattia sembra un altro male necessario ma indesiderato che irrompe nel corpo e nell’ambiente creando una cesura irreparabile tra le persone e perfino nello stesso individuo che non sarà mai più sé stesso: “di me non c’è nulla in questo mondo/che mi somigli”. La maturità di questi versi, che pur attraversa la giovane età dell’autore, si deve cogliere proprio nei dettagli inaspettati, in quelle verticali liriche e umanistiche che si innalzano tra i toni alti e cupi dei testi come travi portanti della cui esistenza si era procurata (volutamente) la dimenticanza: “Scava la nostra dissolutezza/Ami perché assolvi il nulla nell’amore”.

La terza sezione, “Terraferma”, funge da explicit dell’opera e sembra consolidare le ipotesi gnoseologiche presenti in quelle precedenti. Dio è ripetutamente nominato nella sua perenne assenza o nella sua carenza ontologica. Ancora una volta il linguaggio fallisce nel diventare ciò che intende creare e, così, non c’è che una sola dimensione da cui tutto dipende, quella interiore.

Se “il fuori è ancora un dentro./Dalla vita non si esce neppure/col suo sventramento”, forse oltre la sfrontatezza del dettato più feroce e l’ostentata indifferenza per il dolore, un tormento permane e sfugge dal verso, diventa un sentiero che, seppur tortuoso, riporta a casa, in quel “dentro” che accoglie la vita nei suoi mille sembianti, anche quelli non accettati o inaccettabili.

Gisella Blanco

 
 
 
 
VII
 
È questa la fase più bella:
quando la vita biografica
già se n’è andata. La pelle
è tiepida, ancora stirata;
le molecole cominciano
a farsi ripristinare, Dio
ritira il suo prestito
all’assolutismo omuncolare.
– Ché l’io, in fondo, alla vita
sta stretto, è un alfabeto
monolitico; l’omicida
altro non è che
un agitatore politico -.
 
 
 
 
 
 
XIV
Interno (I)
 
Spaccata, così, da un giorno
all’altro, l’angolatura della prima
persona; i suoi pronomi, bui;
non avevo più nessuno a cui
imputare qualcosa: d’improvviso
la mia materia si è fatta vuota
reclamando quella altrui.
 
 
 
 
 
 
III
Interno (II)
 
C’è una finestra spaccata un ragazzo
dagli occhi azzurro fine
c’è il nemico c’è un rosario spezzato
c’è lo sporco del camino sulle guance
c’è il mio disarmo c’è lo spazio bagnato
tra i fori del corpo e quelli del marmo,
c’è la rossezza mattutina, non c’è l’alba,
c’è il mio interno che sconfina…
 
 
 
 
 
 
VI
Cancro (II)
 
Dio. Cos’è successo. Dalle tue efelidi
a questa luce bianca, fuori il vento
stanca, la sua assenza ci mutila di nome;
ed io, anche se reso impronunciabile,
io ti manco, ti manco come manca
alla coscienza uno spazio dove afferrare
il suo odore. Sai, tesoro, ci è caduto
ogni pronome: l’anima smette di profumare
quando il malato si scopre corpo, fetore.
Dal corridoio due voci sgranate: bambini
scremano le bocche illesi dall’amnesia:
mentre dietro la porta si trattiene, sigillata,
l’aria atrofizzata della malattia.