Se un mito possa dirsi falso: lo strano caso di Partenope


 

Quando si pronuncia il nome di Partenope, il pensiero si dirige in due direzioni: quella del mito e quella del logos. Nel primo caso, si sofferma sull’immagine della sirena, creatura ibrida e misteriosa, inquietante e seducente, strettamente legata al mare; nel secondo sulla città di Napoli, legata al mare anch’essa, altrettanto seducente e inquietante, ibrida e misteriosa come la creatura da cui prese uno dei suoi molti nomi. La sintesi, naturalmente, non rende giustizia al tema complesso delle etimologie e delle ragioni della toponomastica, ma spinge ad indagare e farsi spazio in una fitta trama di equivoci e approssimazioni che, dall’VIII secolo a. C. a oggi, si rincorrono generando storie e immagini straordinariamente incoerenti, come solo con il mito può accadere.

L’iconografia moderna di Partenope la rappresenta come quella che per quasi tutti, oggi, è una sirena – tutti, tranne i classicisti-: donna fino alla vita, pesce dai fianchi alla coda. Per un classicista, invece, la sirena è una creatura comunque ibrida, come, del resto, la maggior parte delle creature mostruose che popolano il mito classico, ma per metà donna, per metà uccello, quasi come le Arpie. Nell’Odissea, XII 39-46, la prima apparizione letteraria: Circe predice a Ulisse i pericoli del viaggio, mettendolo in guardia: “Tu arriverai, prima, dalle Sirene, che tutti /gli uomini incantano, chi arriva da loro./A colui che ignaro s’accosta e ascolta la voce/ delle Sirene, mai più la moglie e i figli bambini/ gli sono vicini, felici che a casa è tornato,/ma le Sirene lo incantano con limpido canto, /adagiate sul prato: intorno è un mucchio di ossa /di uomini putridi, con la pelle che raggrinza”. E poco più avanti -XII 184-188-, quando finalmente l’incontro accade, e l’eroe astuto, avvisato dalla maga, escogita il celebre trucco dei tappi di cera per i suoi marinai, le Sirene cercano di guadagnarne l’attenzione: “Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei,/e ferma la nave, perché di noi due possa udire la voce/. Nessuno è mai passato di qui con la nera nave/ senza ascoltare con la nostra bocca il suono di miele,/ ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose […]”.

Né qui né più avanti, tuttavia, si legge il nome di Partenope, del tutto assente nella tradizione omerica, e ugualmente mancante nel testo delle Argonautiche di Apollonio Rodio, poema epico di età ellenistica – III secolo a. C. – che, nel ripercorrere le avventure di Giasone e degli Argonauti alla conquista del vello d’oro, narra di un nuovo tentato tranello da parte delle Sirene ai danni dei marinai, salvati, ancora una volta, da un destino di morte grazie a Orfeo, inventor della poesia lirica che, suonando la cetra con ritmo veloce, copre il canto mortale (Apoll. Rhod. Arg. I, 890-912) : “Sempre appostate su una rupe munita di buoni approdi,/avevano privato moltissimi uomini della gioia del ritorno, /consumandoli nello struggimento. Anche per gli eroi effusero/ senza ritegno le loro voci, soavi come gigli,/ ed essi già stavano per gettare gli ormeggi sulla spiaggia:/ ma il Tracio Orfeo, figlio di Eagro, tendendo la cetra Bistonia/ con le sue mani, fece risuonare le note allegre di una canzone dal /ritmo veloce, affinché il suono sovrapposto della sua musica/ rimbombasse nelle loro orecchie. La cetra vinse /la voce delle fanciulle: Zefiro e insieme le onde sospinsero/ la nave, e il loro canto si fece un suono indistinto”.

Per trovar traccia della Partenope cui risale il mito di fondazione di Napoli, dobbiamo invece riferirci ad un altro poema databile al III a. C., ancora di età ellenistica, attribuito a Licofrone di Calcide: un’opera estremamente complessa e scritta in modo sibillino, così da riprodurre quella che si propone come la profezia di Cassandra (o Alessandra), la figlia del re troiano Priamo, capace di prevedere il futuro e condannata a non essere mai creduta. A un certo punto dell’opera, quando si racconta il viaggio di Ulisse, più o meno a partire dai vv. 650 e seguenti, iniziano ad apparire creature che sembrano corrispondere proprio alla narrazione omerica delle Sirene: il primo riferimento è agli “scogli di quelle con le gambe di arpia e il canto di usignolo” (v. 653), presso i quali “tutti ugualmente dilaniati saranno raccolti nella comune dimora di Ade dopo aver sofferto ogni pena, tranne uno solo, messaggero della morte dei compagni, colui che porta l’immagine del delfino, il rapitore della dea fenicia”. In questo frangente, Ulisse sarebbe ancora vicino a Scilla, quindi alla Calabria. Poco dopo, se ne racconta il passaggio nello stretto di Messina, evidente nei riferimenti a Scilla e Cariddi, dopo cui alcuni versi raccontano di “quale vergine dalla voce d’usignuolo, distruggitrice dei Centauri, del paese di Etolia, e anche di Acarniana, col dolce canto non cercherà di far morire privi di cibo i passeggeri?” (v. 670-672): ancora una vergine, ancora il bel canto, ancora una strategia di morte. Infine, l’ultima sequenza, la più ampia, che si colloca in prossimità delle coste campane, e dove, finalmente, è possibile leggere il nome di Partenope (vv. 712- 721): “E toglierà la vita, quindi, alle tre figliuole del figlio di Teti, che sanno imitare nel dolce canto la madre, e che suicidandosi con un salto spiccato dall’alto di una rupe andranno a galla con le ali sulle onde del Tirreno, verso là ove le trarrà acerbo fato. L’una, rigettata sul lido dalle onde, accoglieranno le mura di Falero […] e là le genti del paese costruiranno la tomba della fanciulla. E a lei Partenope, dea alata, con libagioni e sacrifici di buoi, renderanno onori ogni anno”. In questo caso, a differenza degli altri due luoghi, il termine indicato per le alate creature femminili è κόρη ( kòre), ossia fanciulla, una parola riferibile alla dimensione dell’umano. Ma la kòre è, contemporaneamente, la dea alata. La fanciulla e la dea.

Nessuna traccia, tuttavia, in Licofrone del termine Sirene. Inevitabile l’obiezione: nessuno dei personaggi citati nell’ambigua profezia di Cassandra viene indicato con il proprio nome, quello che nell’accezione comune li rappresenta. Ma a quale di queste creature accomunate dal dono del melodioso canto la definizione potrebbe riferirsi in modo più calzante: a tutte, forse, pur così diverse tra loro? Ad ogni modo, è a questa testimonianza, per quanto ci è dato sapere, che la tradizione mitografica fa risalire l’identificazione di Partenope con una delle tre Sirene figlie di Acheloo, divinità fluviale; corroborata da numerosi documenti iconografici, la natura ornitologica delle sirene mediterranee resta costante, come pure la persistenza dell’elemento marino. Probabilmente la coesistenza di queste due dimensioni, che ha finito per veder prevalere la seconda a discapito della prima nell’immaginario medievale, moderno e contemporaneo, facendo sparire le ali di Partenope e lasciandole la coda di pesce, ha generato la moltitudine delle rappresentazioni ibride che caratterizzano l’immagine delle sirene nell’arte rinascimentale e barocca. Dal punto di vista del mito e dell’indagine letteraria, la situazione resta complessa e lontana da soluzioni definitive, condivise, ma sul piano del logos, forse, regala qualche plausibile ipotesi. Le creature ibride, infatti, non popolano solo la dimensione del mito e dell’immaginario, ma sono una concreta manifestazione della natura. Gli uccelli marini, ad esempio, sospesi tra il cielo e l’acqua, oltre che nell’habitat, anche nell’aspetto che assumono passando da una dimensione all’altra, possono regalare prospettive di analisi sorprendenti. E negli ultimi anni, in un costante e mai tramontato impulso a leggere il mito in chiave razionale, alcuni ornitologi hanno ipotizzato che il riferimento alla sirena Partenope, o alle sirene del Mediterraneo, più in generale, derivi dalla berta maggiore (Calonectris diomedea), un uccello marino che nei secoli passati affollava i nostri mari, nidificando lungo le coste più frastagliate e piene di ripari. Nelle notti senza luna, le berte, simili all’albatros, e membri della famiglia dei procellariformi (uccelli delle tempeste), cantano emettendo un verso che ricorda il pianto di un bambino. Probabilmente, spiegano gli studiosi, questi uccelli dalle ali gigantesche attiravano con i loro “vagiti” e pianti disperati i marinai che, avvicinandosi troppo pericolosamente agli scogli e non vedendoli per tempo, finivano per schiantarsi nell’inevitabile impatto. In prossimità delle Tremiti, le berte maggiori sono chiamate anche diomedee, per l’altro mito che il loro particolare canto richiama: si credeva fossero la reincarnazione degli antenati e i Greci sentirono in quel canto il lamento dei guerrieri di Diomede, dopo la sua morte. In prossimità della Sicilia, invece, sono chiamate sirene; oggi questi uccelli sono nettamente diminuiti lungo le nostre cose e isole, tanto da meritare la protezione riservata alle specie protette. La colonia più grande si trova sull’isola di Linosa (l’isola delle Sirene, appunto). Ma un tempo, le coste campane e le isole che le costeggiano, Ischia, Procida e Capri, oltre alle piccolissime Li Galli, di fronte alla costiera sorrentina, dovevano ospitarne numerosissimi esemplari, soprattutto nel momento della nidificazione e deposizione delle uova, anzi, dell’unico uovo che una berta maggiore è in grado di deporre. Ad acuire la verosimiglianza dell’ipotesi, il fatto che una berta non sia in grado di spiccare il volo da terra, ma abbia, invece, bisogno di lanciarsi dall’alto di una roccia o di uno scoglio verso il mare e possa poi nuotare fino a cinquanta metri di profondità. Tante coincidenze non possono certo lasciare indifferente anche il più scettico studioso del mito, che, tuttavia, forte di una diversa complessità della sua indagine, non vorrà assolutamente considerare la questione archiviata. Al contrario, tornerà a riconsiderare le sue fonti, e a cercare, ad esempio, la prima testimonianza letteraria in cui compaiano in un nesso esplicito il termine Sirena e il nome di Partenope, come, in effetti, accade, ma, sorprendentemente, solo in età Flavia – seconda metà del I secolo d. C. – nei Punica di Silio Italico (12, 33- 36), quando il mito originario, pur nelle sue innumerevoli varianti, è diventato talmente lontano da appartenere a una evocativa tonalità della sfumatura di un verso: una sola delle Sirene, Partenope, figlia di Acheloo diede il nome a quelle mura nelle cui acque regnarono a lungo i suoi canti, quando, attraverso le onde, non propizia cantava ai poveri marinai la morte dolce.

Del resto, come quasi sempre accade nell’esperienza di un classicista, la strada, in questa direzione, era giù stata solcata da Virgilio, nell’Eneide (V 864- 866): e ormai si avvicinava, trasportata dalle onde, agli scogli delle Sirene, un tempo pericolosi e biancheggianti per le ossa di molti: allora risuonavano rauche le scogliere, battute in lontananza dal mare. I grandi uccelli marini del Tirreno, e i loro canti, già non c’erano più. Scomparsi dall’orizzonte marino, rimanevano nel ricordo di chi conosceva quella terre e ne aveva imparato la lunga memoria.