Un giorno non come un altro nella vita
salgono per greppi
e sui costoni
mai così fitti
e alti e luminosi
i papaveri rossi,
t’entrano nella macchina
come lampi,
trapassano vetri
e specchi
s’intrecciano sugli occhi
e tra le mani,
ebbra la corsa
dentro quel rosso smisurato,
no, ancora non lo sai,
fugge l’ultimo anno
giovane e felice
e venne il giorno cupo,
un giorno non come un altro
della vita,
e la spagnara limpida
e compatta
quell’azzurro lieve
come l’aria
scomparve nelle tenebre
oscurata,
e s’oscurarono i cieli
e tutti i campi
anche il verdone perse
il suo colore
e nero lo stridio
nere l’erbe,
nel nero che t’avvolge
e che ti schianta
le tempie fatte cupe
come il respiro
come nella pellicola
che arde e brucia
i fotogrammi tutt’attorno,
mutilata la salvano
le forbici,
in cenere si spengono
le ore che quel giorno
cerchiano, il più cupo
sì, mi restano
la casa e le figure
nella mia macchia persa
la più lontana,
quell’odore dell’acqua,
di muschio e raganella
verde e bagnato,
l’antico scalzo e biondo
che lento s’incammina
verso le nubi
dopo il ricordo cede,
i fotogrammi tutti
sono bruciati,
ma qualche brano resta,
scendi per l’aspra piana
scordi compagni e prati,
e tu e la donna entrate
soli dentro quel mare
vuoto, così remoto
e gli spini dei ricci
nella carne
la corsa no arrestano,
felice
oggi c’è molta luce
nella macchia,
vengono fuori bisce
al primo raggio,
tra le foglie cammino
intorpidito
come quella lumaca
dentro l’erbe
che il ragazzo toglie
da una scatola buia
e ripenso a quel giorno,
un giorno non come un altro
della vita
da Nel folto dei sentieri
La poesia, il suo valore attuale, la diversa concezione acquisita nel corso del tempo: su questi temi abbiamo interrogato Umberto Piersanti (1941), tra i maggiori poeti contemporanei e di cui è recentemente uscita l’antologia in svedese con traduzione di Ida Andersen per le edizioni Ekstrom & Garay. Su che territori viaggia oggigiorno il verso rispetto al passato? Che pubblico è quello della poesia, segnatamente quello attuale presente sui social?
Federico Migliorati
Parto dal presupposto che, nel mio caso, la poesia è, prim’ancora che un modo di scrivere, un modo di essere. Credo sia l’illusione di vincere ogni finitudine, di combattere o esorcizzare la fine che ci sarà per ogni persona: non è una questione di fama o di gloria sebbene sia lecito e giusto poter dire la propria parola, piccola o grande che sia, come porre il proprio sasso nel letto del fiume del verso. Ognuno dà il proprio contributo alla storia del mondo purché sia chiaro che si scrive per sopravvivere, per vivere più intensamente, per dare un senso alla vita. Fare poesia è la pienezza del vivere. Non ritengo vi sia nulla di metafisico nello scrivere versi, è piuttosto una concezione antropologica. Quanto al tema del rapporto passato-presente, come non vederne i grandi cambiamenti: negli anni Sessanta, per esempio, si aveva un’alta considerazione della poesia e del poeta. C’era forse poco pubblico di essa anche allora, ma chi scriveva rappresentava una figura importante, i maestri erano venerati, si aveva un enorme rispetto verso di essi. Poi, di lì a poco, si sarebbe scatenata l’Avanguardia che avrebbe combattuto in direzione contraria. Oggi c’è invece una melassa infinita causata soprattutto dai social, dove non vi è più distinzione tra l’ultimo poeta appena arrivato e il grande letterato. Da una parte, certo, il virtuale ha dato a ognuno la possibilità di esprimersi, ma dall’altra ha svalutato il senso della poesia che viene considerata una sorta di sfogatoio di massa. E, peraltro, assistiamo al curioso fenomeno di un numero di lettori esiguo a fronte di un numero di poeti altissimo. Non parliamo poi dei mass media, che mirano sovente alla dimensione sensazionale: in tv raramente vediamo poeti, ormai considerati fuori dal tempo. La poesia è appartata, ma resta necessaria contro il bla bla dei tempi: bisogna tuttavia porre attenzione a che essa non diventi a sua volta chiacchiericcio o pura retorica. E poi che dire del mare di pubblicazioni a cui siamo soggetti ogni anno: ecco, spetta ai critici, a tal proposito, ritrovare le loro competenze, distinguere le segnalazioni, le storie, ritrovare un disegno preciso. Non è vero che tutto ciò che esce è bello e buono, anzi. Resto fermamente convinto, da poeta “vitalistico” quale sono, che un autore debba presentare un’opera-mondo, personale certo, ma definita: io ho un mondo che porto in visione, all’ascolto degli altri, talvolta sono considerato “antico”, ma questo è. La poesia, in ultima analisi, è una vocazione, un modo di stare nell’universo.
Umberto Piersanti