Una domanda al poeta: Mariangela Gualtieri

foto di Dino Ignani

 
 
 
 

Cara Mariangela ho tra le mani il tuo ultimo libro, Quando non morivo, che non ho ancora letto del tutto, ma mi ha già conquistato, così come era successo quando comprai il tuo “Bestia di Gioia”. Fu quest’ultimo, infatti, il libro che mi ha fatto innamorare della tua poesia, tanto da spingermi ad invitarti a scendere giù in Sicilia, al Sikano Fest della Valle del Belice. Fu quello un incontro fecondo per i tanti che ti ascoltarono assorti e conquistati dalla tua parola, e lo fu anche per me, grazie alla tua profonda lezione umana e artistica.

Del tuo nuovo libro mi ha colpito in modo particolare la poesia di pag. 10, inserita nella prima sezione “Ecce cor meum”; la riscrivo:

 
 
 
 
Si cade a volte
in un lutto senza cadavere.
Aiuole di sillabe stanno
in arido suolo, plotone vinto e
disperso, un’accensione di tutto
il dolore mondiale
assale senza ragione il magma
fra gola e petto. E cadiamo
nelle antiche tristezze
degli abbandonati,
dei reclusi in fondo alle galere
di rematori incatenati.
Allora è un popolo
che siamo e un’intera perduta guerra
grava le sue nere ali
sul nostro capo.
Per tutti tornare a casa.
Essere eroi dentro il proprio sangue
allora per tutti rimanere
trovare la sponda delle voci.
 
 
 
 

Ora tu hai il dono di fare della tua esperienza umana e soggettiva il materiale prezioso con il quale scrivere versi che ognuno avverte vicini al proprio sentire, forse perché sei e vuoi restare fedele al dettato emotivo che avverti dentro di te, forse perché ritieni esigenza primaria, non tanto l’invenzione, quanto la traduzione letteraria di ciò che ci affida il linguaggio potente e oscuro della carne. In questa prospettiva sono dunque belli questi versi nei quali, con estrema semplicità, fai esperienza di quella persistente fragilità umana così fuori moda, così poco consona ad un canone esistenziale forgiato sui criteri del successo ad ogni costo. Non mi stranizza dunque che tu parli di un “lutto senza cadavere” , perché ogni volta che ci tradiamo, che obbediamo ai canoni di una vita inautentica (per dirla con Heidegger), a morire siamo sempre noi stessi. Lontani dal centro unificatore della nostra interiorità, il solo che dà senso ai gesti e alle nostre parole, non stupisce che ognuno possa sentirsi privato della sua libertà, rivedendosi nel destino dei “reclusi in fondo alle galere/di rematori incatenati”. Ecco, penso di non sbagliare se dico che questo malessere ci è stato inoculato da un concetto di civiltà per il quale il senso della vita riposa nel possesso delle cose, nel concetto di progresso, secondo il quale ciò che conta non è mai in noi, ma in qualcosa fuori di noi, in qualche oggetto che siamo invitati a desiderare. Ecco perché non siamo mai a casa, ecco perché non erigiamo dimore, ma distruggiamo continuamente quelle che abbiamo. E allora – e vengo alla domanda – ti chiedo di aiutarci a comprendere il senso di questi versi: ” Per tutti tornare a casa. /Essere eroi dentro il proprio sangue/ allora per tutti rimanere/ trovare la sponda delle voci. E in modo particolare il valore di questi due verbi: “tornare e rimanere , e con essi, il senso della poesia rispetto a queste dinamiche.

Nel ringraziarti per tutto, ti giunga il mio più caloroso saluto.

 

Biagio Accardo

 
 
 
 
 
 

Caro Biagio, ricordo anche io con piacere i giorni trascorsi in Sicilia, al vostro festival e poi in giro per territori che non conoscevo. Ricordo la tua gentilezza e sensibilità e tanto altro. Grazie per le tue parole, assai più lucide di quanto io possa scriverne. Sono molto d’accordo con te e credo ci sia poco da aggiungere.

Il “lutto senza cadavere” potrebbe essere forse una buona definizione dell’angoscia, quando arriva senza motivo, senza una causa precisa, e permane in noi per un certo tempo e poi ancora senza motivo ci lascia. A me sembra in quei momenti, di essere chiamata a portare un pezzo della massa dolorosa del mondo e questa impressione è viva in me fin dall’adolescenza. Sempre, in questi momenti cupi, il mio pensiero va a tutte e tutti coloro che come me stanno soffrendo, e a volte il pensiero sfonda nel passato, fra gli antichi galeotti legati ai banchi delle navi, o al fondo di oscure tetre prigioni.

Questa comparsa, nel dolore, del dolore degli altri, suscita in me uno spirito gregario (in senso ciclistico o anche animale), la necessità di fare un passo per tutti, mi sento parte di un popolo e per tutti voglio, debbo uscire da quella stretta, scioglierla. Da lì nasce una spinta esortativa, in primo luogo per me stessa.

Il finale esorta appunto a restare. Penso che da un lato sia una esortazione contro una sorta di ingordigia, come scrivi tu, ma anche, in un altro senso. In questo tempo di grande esposizione tecnologica, in cui tutti siamo chiamati da mezzi potenti e molto affascinanti a stare sempre in connessione con altri, come se stessimo sempre alla finestra, il mio è un richiamo al raccoglimento, così necessario alla poesia, una esortazione a rimanere a casa, in sé, nelle migliori stanze di sé, dove si forma quel dialogo interiore così colmo di silenzi, di vuoto. E lì la parola si deposita e pare covare le sue uova d’oro.

Quella è la sponda delle voci. C’è una immensa fede nella parola poetica, anche come possibile fuoriuscita dal dolore.

Il tutto in sostanza si muove intorno al dilemma della presenza degli altri, i detestati invadenti altri, gli altri che come ho scritto “sono troppi per me” – ma anche, per la mia gioia del fare insieme comunitariamente (e a questo il teatro mi ha educata per decenni) gli adorati altri, le adorate altre che vorrei – a volte fino a rasentare il patetismo -soccorrere.

Ecco caro Biagio. Ma forse tutto era già scritto meglio da te. È comunque una bella occasione per mandarti un saluto affettuoso e un grande augurio di bene.

 

Mariangela Gualtieri