Verrà la notte – Cristiana Lucidi

Verrà la notte – Cristiana Lucidi

 
 
 
 
Non qui.
Ogni giorno
scenderemo
alla città invisibile
fermento di umori
carne e acciaio – la fossa comune
di chi è morto in culla –
nulla
appartiene a chi è stanco
di stringere parole
nell’istante prolungato
di coscienza.
 
 
 
 
 
 
Annegheremo nella quiete
– l’orlo del bicchiere
attende
la goccia negata
dalla cattività
del sonno –
l’anello di Saturno
attorno al petto
la croce
di essere morti
e sentire
il rumore bianco
del crepuscolo.
 
Verrà la notte
e sarà eterna.
 
 
 
 
 
 
Siamo morti
che tremano di freddo
ancora
e per quanto l’occhio
guardi altrove
l’orrore rimane
impresso nell’iride
beato sia chi ha il coraggio
di accecarsi.
 
 
(Cristiana Lucidi, inediti)
 
 
 
 

Brevilinea nella sua produzione, e lontana dalla verbosità opaca di una versificazione onfaloscopica, Lucidi concreta una scrittura poetica contraddistinta da un elemento completamente conscio che nulla sarà risparmiato al vivente in quanto tale, e da un dettato totalmente imbevuto dell’urgenza sanguigna di dar risposta all’avvicendarsi degli eventi, ed al tragico che questi incarnano nell’orizzonte epistemologico.

Il primo testo esordisce squadernando un elemento di non presenza, ed instaura un campo semantico della negazione in cui né orizzontalità, né verticalità, hanno un valore sintatticamente salvifico.

Sarà piuttosto la discesa, il muoversi in negativo sull’asse sia delle ascisse che delle ordinate, a determinare la poesia della Nostra; e per questo, infatti, si assiste alla trasfigurazione della città in un inferno a cielo aperto: la Gehenna sul lato sud del monte Sion in cui si consuma la discesa nell’inconsistenza, nella non-morte di chi non ha mai vissuto se non i primi istanti – i più crudeli – del dolore che porta all’esistenza.

Lo stesso atto di scansione delle parole (e, per sineddoche, della poesia) si istaura come atto logorante, ed il gesto poetico conserva uno stato di coscienza prolungativa di un orrore e di un raccapriccio quotidiano che fonda una campitura esistenziale ove la quotidianità si contestualizza come catabasi nell’atropo, il quale risulta e come il tartaro diabolico delle cose, e come spossessamento e disappartenenza – persino a sé stessi.

Il secondo componimento invece – decisamente più mitologico nei soggetti che introduce, e per questo più tragico nella sofferenza che lo verga – squadra un certo sentimento del quietismo (imposto, perché contestualmente negato a priori) che deriva da uno stillicidio nel bicchiere, alludendo probabilmente al gocciolare di certi dosatori di farmaci ansiolitici, o all’atto di versare del liquore – senza mescere la sostanza al proprio ospite.

La mancanza di respiro è sintomo principe dell’ansia; e questo trasfigura per assumere e il ruolo della condanna “di essere morti”, e la costrizione a non potersi distrarre dal rumore bianco della fine delle cose. Questo, in seconda lettura, coagula un nucleo strettamente esistenzialista, coerente (se non oppresso) dallo stato delle cose, e per questo contrariamente avverso allo stato di quiete apparente che anticipa il sonno della notte (e quindi della morte).

Sintetizzandosi in un vespro assordante – certamente – nel suo rumore indistinguibile perché “bianco” (che traduce il termine “white noise”), e pertanto produttivo di un effetto ipnotico nel disciogliersi del crepuscolo anodino e dello spegnersi lentissimo delle luci, il senso gnomico della poesia in Lucidi si arricchisce nella brevità (per altro, il significato astrologico di Saturno sussume il concetto di sintesi ed insegnamento, anche se qui sembra da intendersi in un senso puramente ovidiano), fino a chiosare con un verso che ricorda al Pavesiano “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”.

L’ultimo testo – il più esplicitamente tanatologico nel suo disporsi – anticipa la morte biologica dell’essere, e la inocula nel modo dei viventi associando al rigore mortale il tremore delle carni come unico gesto di distinzione tra gli esistenti, unificandoli tuttavia nella destinazione globale della realtà.

L’elaborato prosegue, e si spinge nel più sordido del dolore, sfociando – al di là del complesso fenomeno psicologico omonimo – nel sentimento univoco di ciò che più accompagna il verso: la consustanziale evocazione alla morte, ed il conseguente desiderio della stessa.

E nella delirante frenesia dei muscoli contratti nello spasmo del freddo, nulla sembra poter sottrarre dal Cocito del quotidiano perché, anche divertendo “altrove” il punto focale dell’osservazione, quanto più orrido rimane come vera qualificazione e quantificazione dell’esperienza vitale.

L’unica prospettiva salvifica si concretizza nell’edipismo, e cioè la privazione totalmente consapevole della vista, che nel dettato emerge come scelta “beata” poiché estranea a quanto visibile, nonostante lo stigma derivante da quanto visto si sia inciso irrimediabilmente, e bruci per sempre, nel fondo dell’iride.

Il che conferma la (taciuta) tematica tragica di Edipo; e qui, più coerentemente – seppur rimanendo nelle compagini dell’assurdo – si aspira alla cecità autoinflitta, nonostante sia negata istantaneamente la portata redimente di questo gesto, poiché l’esteriorità del reale si conserva, e rimane nel suo più ostinato tremendo.

Carlo Ragliani