Una domanda al poeta: Giovanni Ibello

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foto di Dino Ignani

 
 
 
 
I
 
Qui, dove adesso siamo,
nella sorgente dell’ultimo vedere,
ogni cosa è già vissuta:
l’estate che tormenta i gerani,
l’uomo che grida nel vento.
L’ariosa calma che segue l’amore.
Diego Maradona che dice:
yo sé la culpa que tengo.
Yo sé la culpa que tengo.
 
Yo-soy-la-culpa, Emir.
Io, stella cancerosa
io, smusicato: il mai redento.
Sia aperto
il segreto convegno
[delle vampe,
il battesimo incendio.
La vita implume.
Nasca pure, se deve,
il bambino lordato di cenere.
 
 
 
 
II
 
Nasce incendio e muore sole
questa gioia che torna a intiepidire il vento.
Torneremo a dire grazie per il buio,
per l’alba dei rasoi.
Per ogni fuoriclasse spento
che accarezza la palla con la suola,
che infila l’incrocio, e non esulta.
Come una prostituta annoiata da dio
anche tu volevi fare alta la vita.
Cercavi il tuono nelle serrande,
dribblavi fiori, altalene,
elefanti di vetro. Dicevi:
sono felice perché non sono qui.
 
 
 
 

Senso di colpa e gioia, voler “fare alta la vita”. Vita e vite che si consumano nelle loro ambizioni, eppure la poesia ricorda. Qual è il compito della parola di fronte a tanto?

Alessandro Canzian

 
 
 
 

“Qual è il compito della parola”. Se, come credo, intendi la parola poetica, penso a questa frase di Milo De Angelis: “Forse la poesia è il sacro ferito dal suo dirsi, è il sacro che incontra la spina della parola”. Comunque sia, ribadisco quello che per me è un mantra e che già in passato ho avuto modo di osservare: la questione non è tanto circoscrivere la parola poetica (la poesia esiste perché esistere è nel suo destino), ma se la poesia può costituire un’esperienza religiosa.

Certo, è indubbio che le due esperienze – la vocazione al sacro e alla parola – hanno in comune la percezione dell’assoluto ed è altrettanto vero che la poesia s’intreccia con il nulla. Eppure, a prescindere dall’esperienza religiosa, penso che una lettura laica ed equidistante dei testi sacri sia in grado di nutrire la parola poetica e dialogare con l’assoluto (poter dire qualcosa “di fronte a tanto”). Questo, ovviamente, non ha nulla a che fare con “la medicina dell’anima”.

Pensare che nella parola poetica possa esserci una qualche forma di salvezza significa volere il male della poesia. Non c’è nulla di consolatorio nel tragico, nella sola evidenza che ci è data: il disfacimento. Nel Trattato dell’empietà (saggio edito da Adelphi nel 1987) Manlio Sgalambro prova a osservare freddamente Dio, e si sceglie come invisibili protettori quei grandi teologi dimenticati, come Suárez o Melchor Cano, che sapevano trattare di Dio con cupa professionalità. Mi hanno insegnato che il vero teologo è colui che osa sfidare Dio (che in poesia non può che essere dio) e, a mio avviso, questo proposito è senz’altro poetico (e tragico).

Penso inoltre a quei passaggi biblici che rivelano il fine ultimo – se esiste un fine ultimo – della poesia e della parola: la veggenza. Mi riferisco a versi formidabili come questo: “Morte e vita sono in potere della lingua. Chi l’ama ne mangerà i frutti” (Proverbi 18:21). Inoltre l’apocalisse di Giovanni ha ispirato parte del mio percorso poetico (“Il mare restituì i morti che esso custodiva” – Apocalisse, 20:13).

Nel mio piccolo poema ancora inedito in Italia, i Dialoghi con Amin, al di là degli esiti, tento la via della “bestemmia” come sforzo ontologico. Sto tentando questa strada, non so se sarà feconda ma di certo “la poesia è il sacro che incontra la spina della parola”. Lo sa bene Alessandro Ceni, poeta strepitoso e visionario. Forse “Mattoni per l’altare del fuoco” è l’unica teogonia della poesia contemporanea.

Tornando ai testi, è giusto che il lettore interessato (?) si chieda se Amin sia un martire eletto o un sopravvissuto. È il profeta che annuncia il disfacimento, l’estasi nella rovina, o è il pontefice del nuovo mondo? Io stesso fatico a capire. Ma è me inevitabile, in questo scenario, un passaggio su Diego Armando: l’araldo della vita sognata.

Maradona è la più gloriosa delle semiasfissiate divinità estive (per dirla con Tranströmer), è un archetipo, è colui che – parafrasando in questo caso Sorrentino – “non è arrivato a Napoli, ma è apparso”. L’apparizione è un’esperienza che non pretende parola. Mi dice un caro amico, Mario Famularo, “che la parola assoluta è il silenzio. Avvertirlo è doloroso, più ci si avvicina, più si avverte la spina”. Come posso dargli torto? Eppure, c’è una verità della poesia fatta di leggi e di suoni, una verità di materia che pur incarnando questo proposito, lo contraddice. Scrivere è dunque violare questo dogma, è peccare.

Scrivere è meritare il castigo dell’incompiutezza, scrivere è ammettere la colpa. Stare sempre in una sorta di delitto tentato. Sapere che nel desiderio di affermare il vero si crea un “reale altro”, una variabile a più incognite (riprendo, appunto, una mia vecchia conversazione con l’amico Famularo). Come fare alta la vita? Non so, lo capiremo. L’ho scritto proprio nella prima poesia dei Dialoghi: “Troveremo un altro modo per fare alta la vita”.

Giovanni Ibello