ho preso un po’ da tutti a piene mani,
e tra le mani
mi scivola via la vita (che cos’è domani?
Un luogo, un nome, una professione?).
E se domani fosse il vento
che scivola via dai petali,
un gesto fatto contro questa notte
che ci divora, fino al sole
di domani
La farfalla vive due giorni,
non sa
che lo spillo di un uomo la trafigge nel legno
donando eternità e un nome
al desiderio morto.
Del resto l’uomo è un collezionista di sogni
li vuole di razza, per poterli ritrovare,
stilare classifiche.
Ma il mare, lui non ne sa nulla…
se io non fossi scisso
sarei pietra di fiume che rotola,
la corrente lambirebbe la scorza
senza conoscere il nocciolo cieco.
Ma la luce che filtra dai rami
scalda invece una mandorla dolce
e il dolore è gemma che nasce,
non il silenzio
del frutto reciso.
(Tommaso Meozzi, Di fuoco e fiato, Delta 3 Edizioni, 2021)
C’è un senso di silenzioso raccoglimento, di modesta riflessione sul dettaglio minimo del mondo, di leggera osservazione e accoglienza verso ciò che è nascosto per svelare ciò che di prezioso ha di insegnare, in questi versi di Tommaso Meozzi; è presente altresì una venatura terribile, un gesto lievissimo che con grazia sotterranea ma fatale ricorda la potenza di ciò che ci sovrasta e – per converso – il senso del limite umano, delle nostre fragilità.
Sin dal primo testo, con gratitudine si riflette sul passato (prossimo o remoto, non importa), e il primo contrasto è proprio tra quel “ho preso un po’ da tutti a piene mani” e il successivo “e tra le mani / mi scivola via la vita”; dal passato consegue immediata la riflessione sul futuro (anche qui, prossimo o remoto non sembra avere importanza) da un “che cos’è domani?” che si traduce in ipotesi di vita che, come il vento, “scivola via dai petali”, per lasciarli esangui e, proprio per questo, esorta allo slancio di “un gesto fatto contro questa notte / che ci divora” – testimonianza umana necessaria, proprio nella coscienza del proprio limite (e in qualche modo memore del tempus edax rerum ovidiano).
Il tema sembra approfondito e ripreso, traslato esternamente all’io “umano”, nel secondo testo, dove l’immagine della farfalla, dalla vita così limitata, viene umiliata dal gesto dell’uomo che “la trafigge nel legno / donando eternità e un nome / al desiderio morto”, senza comprendere o sapere ciò che le accade. La nominazione diventa così azione e morte e, nell’illusione di “donare eternità”, mostra il lato più crudele dell’uomo, “collezionista di sogni … per poterli ritrovare, / stilare classifiche”. Il confronto con il mare dell’ultimo verso – che si ricollega alla farfalla del primo, perché anch’esso “non ne sa nulla” – “contiene” l’uomo dei versi centrali, tra il microcosmo e il macrocosmo, accomunati dalla propria naturalissima incoscienza, in opposizione con la coscienza dell’uomo, costellata di nevrosi e di meschinità.
Il testo finale rimette a fuoco l’io lirico, dichiarandolo “scisso”, con esposto “il nocciolo cieco” che, altrimenti, lo renderebbe “pietra di fiume che rotola”, con solo “la scorza” visibile; questa frattura, invece, espone alla “luce che filtra dai rami” un nucleo di “mandorla dolce”, portando a una consapevolezza finale: “il dolore è gemma che nasce, // non il silenzio / del frutto reciso”.
Esporre la parte più intima del proprio sé non è dunque debolezza o ingenuità, ma vera e propria occasione di crescita, attraverso un dolore che si trasforma in rifioritura, in rinascita – e non piuttosto nella difesa immobile di un silenzio che, in ultima istanza, ha un sapore di morte, di “frutto reciso”.
Dant vulnera formam, si potrebbe aggiungere, in quello che sembra un invito ad accogliere il dolore dell’esistere, con cui il mondo può colpirci, per comprenderlo autenticamente, e a non infliggere sofferenza alla vita, spinti dalle più variegate aspirazioni e isterie umane, a causa di una visione egoriferita della natura e di ciò che ci è altro.
Mario Famularo