Una domanda al poeta: Gian Mario Villalta

Gian Mario Villalta (Italia) - ita/espa

foto di Dino Ignani

 
 
 
 
I
 
Non la sopporto a volte, tutta questa fiducia.
Non ricordo di essere stato
mai così come te sprovveduto
nell’affidarmi a qualcuno
o crederci così tanto.
Così tanto che io provo vergogna
per il tuo spudorato amore.
 
Io sono uno che sposta la testa
se gli fai una carezza. Ho mille ragioni
per spiegarlo, ma nessuna che valga un millesimo
della tua delusione, perciò chiedo subito scusa
e offro il collo
 
Resto quello che sono,
nonostante la commozione
e lo spavento. Eppure (me ne vergogno,
a volte, sì, anche di questo) non sono preoccupato,
non penso al tuo futuro.
Sto con te, più che posso, sto bene,
se pure resto quello di sempre: mi fai più fondo il tempo,
più presente il presente.
 
[…]  
 
 
 
 
 
V
 
L’ho mai detto, io, ai miei,
agli amici, agli alberi, al cielo,
anche quando davvero potevo,
a qualcuno ho mai detto: “Sono felice”?
Mia figlia lo dice, senza pudore,
senza paura che qualcuno le invidi
la felicità, senza pietà per suo padre
che la stringe in silenzio e se dice “Anch’io”
poi deve correggere “in questo momento”.
 
 
(Telepatia, LietoColle /pordenonelegge, 2016)
 
 
 
 

Caro Gian Mario,

In questi versi tu ci “racconti” le difficoltà che incontri nel condividere con tua figlia momenti di felicità e spensieratezza che, secondo pure il dettato delle poesie che li precedono nel libro, tu non hai vissuto da bambino, o forse sono stati dimenticati, si sono persi in stanze chiuse della memoria.

Ti descrivi padre spaventato, stupito, sprovveduto, pentito. Ma sempre, alla fine, la scorza dura dell’adulto si disfa per accogliere i gesti e le parole della figlia, seppure per un attimo, per quell’attimo e poi basta, o almeno fino alla prossima carezza o parola di affetto.

Nelle note che hai redatto in fondo al libro, riferendoti a questi versi, tu scrivi, cito testualmente, “Imperdonabili le poesie sui figli”, aggiungendo subito dopo “quasi quanto quelle sulla madre”.
Io reputo molto belli questi versi dedicati al rapporto padre/figlia, anzi direi meglio figlia/padre, in cui tu non ritrovi te stesso bambino – come talvolta capita nella letteratura che tratta questo argomento – bensì ti ritrovi l’adulto che sei, schivo e introverso, messo di fronte a un mondo che lo coglie alla sprovvista e allo stesso tempo lo seduce, lo porta alla resa, sia pure soltanto per un momento.

Ecco quindi la mia duplice domanda: quanto si scosta la mia lettura dalle tue intenzioni e perché tu reputi questi versi “imperdonabili”?

Marina Baldoni

 
 
 
 
 
 

Marina,

la tua lettura delle mie intenzioni è corretta, se pure mi concedi di presumere che non solo di me sto parlando, ma di un tempo, di una ruvidezza affettiva famigliare ereditata anche da chi mi ha cresciuto volendomi bene. Non l’avessi pensato, mi sarei guardato bene dall’esibire questo aspetto della mia esperienza, che anzi mi è costato caro dichiarare. La poesia è anche rischiare, e ognuno sa dov’è il suo rischio. Per me il rischio è nella forma, certo, anche dove appare chiaro e limpido il dettato, e nella coscienza che la sincerità è un’arma doppio taglio, che spesso si usa per sedurre o per ferire. O per vittimismo. Scavare dentro quello spaesamento che ho cercato di dire, ha significato anche correre questo rischio, che è quello di una lettura della poesia come segno di un trauma irrisolto, o qualcosa del genere.

Mentre il più di quello che, già dai primi versi, viene in evidenza, è la perdita della dimensione infantile, senza filtri, che la memoria non sa conservare. Dico infatti al secondo verso che non ricordo di essere stato / mai così sprovveduto: dico che non ricordo, non che non lo sono stato. E dico lo spaesamento, appunto, nell’essere messo di fronte all’evento di questa meravigliosa inermità. Che non ho più, questo sì, da tempo. Da tempo, in un tempo che non è solo il mio, ripeto, nel quale anche la felicità appare un abuso. Considerato, inoltre, che la felicità, nell’espressione della figlia, non sai bene a quale semantica riferisca, forse quella della spontaneità pura, dell’assolutezza del presente che forse solo l’infanzia conosce. Noi riteniamo che la felicità sia una forma di incoscienza, in fondo, o di sospensione della coscienza, che non ha parole: se ci proviamo a dirla sfugge, oppure subito viene a contrasto con tutto quello che prima o dopo l’assedia e ci appare stupido esprimerla in parole, o addirittura arrogante.

La poesia è limpida nel dettato, ma i passaggi non sono lineari quanto forse appaiono. Che cos’è la “vergogna” provata per quello “spudorato amore”? Non è la vergogna per la propria insensibilità maturata nel corso di una vita di traumi. È quella di chi, messo di fronte a tanta spontaneità senza filtri, a un inatteso, incomprensibile totale affidarsi, pensa a quante cautele, pudori veri o falsi, distanze tra sé e gli altri frappone sempre. E questa “vergogna” è la spontaneità di chi parla in questa poesia, se ci pensi, come un bambino che si vergogna di una cosa della quale, in fondo, non dovrebbe. A maggior ragione l’adulto, qui, sa che è una cosa bella, ma la vorrebbe dominare, e non può, e si vergogna di non poterla dominare e allo stesso tempo di pensare che dovrebbe farlo. Infatti, cerca di trattenersi, per questo la bambina poi è delusa – viene detto dopo – ed è questa delusione la molla vera, che costringe a cedere. E poi vedi come torna più avanti la vergogna, un’altra, che si libera, che libera un pensiero bello, secondo me, infantile, ovvero che non importa tutto quello che si “deve” nel ruolo sociale di genitori, tutto quello che i genitori dicono e si dicono: le preoccupazioni, il futuro… Quello che conta è solo quella cosa lì, che solo un bambino può farti capire, non il presente in quanto tale, ma il presente che si apre in una spontaneità assoluta, il tempo di un’affettività senza condizioni, precetti, aspettative. E così via… Questa breve sezione intitolata La figlia che dice che è felice è tutta sul filo di una contraddizione interna: cosa ci accade di solito? Sappiamo che la felicità esiste, ma non ora. Non è così? E a quell’ora, a quell’adesso, non siamo capaci di abbandonarci. Oppure lo facciamo consapevolmente. Questa poesia mette in scena la sorpresa della felicità, e il fatto, forse un po’ originale, che è dalla sorpresa della felicità che la non-felicità assume un senso, un altro senso rispetto al più abituale atteggiamento che è quello di vedere la felicità possibile a partire dalla non-felicità.

L’ho fatta anche troppo lunga. La seconda parte della domanda trova una conseguente risposta. L’imperdonabile delle poesie sui figli (ma anche sui genitori) è che mettono in scena un copione già in parte scritto, o l’amore o l’odio, raramente la sorpresa dell’amore o dell’odio. Provando a mettere in scena la sorpresa della felicità, mi sono perdonato. Per questo l’ho pubblicata. Tieni conto che il controcanto, sul lato genitoriale, di questa sezione è quella intitolata Le madri cattoliche del Novecento, nella quale cerco di leggere il copione di cui sopra in modo affettuosamente ironico.

Spero di averti risposto. In ogni caso, grazie.

Gian Mario Villalta