Il tuo giardino
Seguendo l’ombra degli alberi nell’erba,
vengo ad incontrarti. Posa sul selciato di pietra
le scarpe rosa; e il sole salta sopra
il muro di fondo, seguendo l’esempio
della vite. E vorrei allora che il tempo
si fermasse perché tu rimanga in questo verso,
nell’eternità della tua gonna rossa e delle tue mani
che tengono un libro ancora chiuso. Poco
importa ciò che c’è scritto: ciò che conta
sono le immagini che fantastico
nel profondo dei tuoi occhi in cui si riflette
un grande albero – quello che forse parla
con te, quando il vento agita
le sue foglie. Forse questo è un dipinto
in cui tutto è fluido, offuscato dal sole; tu,
però, mi guardi attraverso questi frammenti
di vita che ci attraversano, sovrapposti
come la superficie dei cubi che nasce
dal selciato del pavimento. E apri il libro,
sottolineando le parole che ti cercano.
Allegoria d’amore
L’amore è un uccello che vola
nel vento del caso. Va da solo,
e quando trova una nuvola
subito si perde, non sapendo come uscire
dal suo interno. Vede l’azzurro, ma preferisce
il temporale. Entra nei boschi che
gli sono proibiti, e fugge dalla luce
per rifugiarsi nell’ombra. Ecco da dove
arriva il tuo canto. Noi non lo vediamo
ma le sue ali battono intorno a noi,
e andiamo dove ci porta,
senza chiederci il perché. E poiché
l’amore è leggero come una foglia d’autunno,
è pesante come il suo destino, è
agile come il suo volo, non lascerà che
venga rinchiuso in una gabbia e,
quando viene inseguito, è lui che
cattura il cacciatore
con la freccia che fa male,
ma non uccide.
Cicli naturali
Sul terreno di quella strada dove
passo ogni giorno, ho trovato un uccello
morto; e nel retro del ristorante,
sotto un albero di limoni ricoperto
di frutti ancora acerbi, ho visto un limone a terra,
troppo maturo. Tra l’uccello e il limone
non c’era nulla in comune, tranne il fatto
di essere caduti: l’uccello, dal cielo,
il limone, dall’albero. Non ho preso l’uccellino,
sapendo che dal becco di un uccello morto
nessun canto sarebbe più uscito; ma ho raccolto
il limone, sapendo che potrò spremerlo
per assaporare, col suo succo, il sapore
della terra che ha nutrito l’albero
da dove l’uccello è caduto.
(Nuno Jùdice, Ritorno allo scenario campestre, Delta 3 Edizioni, 2021, trad. di Matteo Pupillo ed Eleonora Rimolo)
In questi testi di Nuno Jùdice, tratti da “Ritorno allo scenario campestre” (Delta 3 Edizioni, 2021, trad. di Matteo Pupillo ed Eleonora Rimolo), ciò che colpisce, in prima battuta, è la ricchezza di immagini appartenenti a una quotidianità che tende a sfumare verso una dimensione atemporale e leggerissima, dove il sentire autentico, quasi infantile, si lega alla percezione di un vissuto denso ma non ostentato: il risultato è una particolare concomitanza di semplicità e tenue nostalgia (in qualche modo suggerita anche dal titolo), che non nasconde la familiarità con quel sentimento tipico della letteratura portoghese che è la saudade.
Ne “Il tuo giardino” l’apparente luminosità dello scenario descritto (“le scarpe rosa … il sole salta sopra / il muro”) si confonde a “l’ombra degli alberi”, diventando occasione di riflessione sull’istante che fugge (“vorrei che il tempo / si fermasse perché tu rimanga in questo verso, / nell’eternità della tua gonna rossa”), sul contatto con la persona amata che si cerca di trattenere nelle immagini (“nel profondo dei tuoi occhi in cui si riflette / un grande albero”); mentre “questi frammenti / di vita … ci attraversano … tu, / però, mi guardi”, interrompendo il fluire dei pensieri e vincolando l’io lirico alla realtà provvisoria dell’attimo, “in cui tutto è fluido”. L’aculeo della nostalgia per la fragilità di questa percezione, e per la sua intensità preziosa, non è esplicitato, ma solo intuibile tra le pieghe del verso, e in ogni caso sovrastato dalla serena contemplazione del quotidiano che si intreccia al fantastico.
Nel secondo testo l’amore viene raffigurato come un uccello senza destinazione, “che vola / nel vento del caso”, che “si perde” e “preferisce il temporale” all’azzurro. Gli uomini, pur non vedendolo, sono da lui trascinati in boschi proibiti e nell’ombra, “senza chiederci il perché”; ma, soprattutto, è creatura impossibile da imprigionare, che “cattura il cacciatore / con la freccia che fa male, / ma non uccide”: poche immagini semplici ma di rara potenza e precisione riescono a tratteggiare allo stesso tempo la spensieratezza, l’afflizione e l’imprevedibilità del sentimento, collegandole alla leggerezza del volo e del canto.
In “Cicli naturali”, infine, Jùdice riflette sulla morte e sul continuo trasformarsi di ogni cosa, e riconsegna, con tono sereno ma allo stesso tempo denso di significato, un messaggio di profonda intimità con il mondo e il suo continuo e incontrollabile mutarsi, insieme al principio per cui ogni forma di vita ed ogni fenomeno sono segretamente legati. Il poeta si trova di fronte a un uccello morto e ad un limone maturo, entrambi a terra, e da qui le riflessioni: “dal becco di un uccello morto / nessun canto sarebbe più uscito”, ragion per cui non ha senso soffermarsi sull’ombra di ciò che è stato; mentre il frutto maturo può donare “il sapore / della terra che ha nutrito l’albero / da dove l’uccello è caduto”. Mai come in questo caso la semplicità non è sinonimo di superficialità o di banalità, ma di puntuale individuazione di una prospettiva di valore, resa con un dettato pulito, sobrio, ma allo stesso tempo espressivo ed accurato.
Mario Famularo