Una domanda al poeta: Emilia Barbato


 
Con levigata perizia radunare le prove minori,
i piccoli pezzi, i nostri intenti per valutare
l’autenticità della cosa che si rompe, sopportarne
il riconoscimento e giurare la parola vero è impossibile,
troppe motivazioni storiche nascoste e una certa
regolarità nei fallimenti, vero quindi non è
un aggettivo conforme alla realtà ma la somma
massima di sventatezza che la parola contiene.
 
da Il rigo tra i rami del sambuco (Pietre Vive, 2018)
 
 

Nei tempi degli schiamazzi vacui e del politicamente corretto – della parola igienica e prudente, che pur di non pronunciarsi deve svuotarsi o farsi asettica –, questo testo parla al contempo con una densità, una pacata ferocia, un sussurrio e una limpidezza necessari, oggi più che mai. Ma cosa significa, e cosa comporta lo schianto a cui approda la poesia nella chiusura? Questo parlare all’osso, questo raccogliere i cocci per attestare l’autenticità di una realtà che non collima più col vero?

Dario Talarico

 
 

Cosa suggerisce l’aggettivo vero? L’esistente? L’acclarato o il corretto?
Citando Bréton e Éluard, chi scrive deve avere il coraggio di “Fissare le bianche figure disegnate dagli spazi fra le parole di diverse righe dei libri e trarre da esse l’ispirazione”. La parola dunque è una immacolata concezione. Aprirla è una sfida, una lotta coraggiosa, un metodo spesso inconcludente e riconoscere quel suono che si spezza, la cosa mancata che svanisce, è atroce. L’ulteriore fallimento che si aggiunge alla storia. Quel vero cui si ambisce diventa irraggiungibile, lontano dalla realtà comunemente percepita, chiarezza impossibile, porta sul mondo che si chiude. Talvolta però, accade che dalle maglie del reale sfugga un respiro di invisibile, un germoglio, il corpo scivoloso di un figlio e allora quelle dita applicate come un vomere sulla carta trovano la propria origine. L’ignoto viene a farci visita e qualcosa prima di incomprensibile appare nella sua intera bellezza, una figura opalescente, un fulmine.
Cercare il fulmine che spaventò il primo uomo, l’urgenza di trascendere la propria condizione, la pulsione a scrivere come a disegnare col fuoco la pietra è un atto feroce. La poesia deve cambiare il modo di appartenere al mondo, ampliare il pensiero, il sentire, l’essere. Leggere poesia è vitale, comporne è raro. L’autentico è scalare, praticare la vetta e il precipizio della parola, tentare di sfiorare la materia indefinita.
Ringraziandoti per la domanda scelta e per avermi offerto l’opportunità di chiarire i miei versintenti concludo con un Flipper, penultimo libro nato da un esperimento sull’autonomia del linguaggio, pubblicato nel 2022 da Michelangelo Coviello nella sua collana Officina.
I versi che sto per citare, e che si sono scritti autonomamente nascendo da un documentario di Herzog, ben riassumono quanto da me chiarito in questa risposta. Sorridendo comprendo, oggi più che mai, che Il mio inconscio ha lavorato a conferma di quanto la ragione aveva precedentemente già fatto.

 
 
Lascaux
 
Quel primo passo imprime
la cosa in sé
su muri, pezzi di legno, ossa.
In un post scriptum gli uccelli partoriscono
su dorsi di stambecchi.
 
Nulla è reale, nulla è certo
fuorché la fonte
ultraterrena la radice figurativa
tra uomo e spiriti.

 
Danno notizia
la donna bisonte, il megalocero, il travertino.
 
 

Emilia Barbato