foto di Dino Ignani
Ho attraversato un oceano e una foresta
ho confuso l’oriente con l’occidente nell’istante
in cui il Tempo
stesso
li unisce
tutto questo per portare i tuoi saluti
ad una donna in un dipinto
tiene fiori rossi sotto i seni nudi
occhi sinceri e un’amica al fianco con le mani
giunte in preghiera
lo sguardo sicuro
rivolto al centro della stanza e
negli occhi la rassegnazione
di chi ha sempre saputo
di chi da mesi cercava il
mio sguardo nella folla
quasi avesse saputo della tua morte ancora prima di te.
In questa poesia tratti di attraversamenti e confusione. Di morte. Un pilastro che viene a mancare. Come può la poesia supplire a questa mancanza? Perché scrivere di mancanza?
Alessandro Canzian
La poesia non può supplire alla morte di qualcuno che ti è caro, è quello un compito impossibile. La poesia però può creare un nuovo legame, con la persona così come con la mancanza in sè. Dopo un lutto abbiamo sempre e comunque una “vita nuova” di fronte, una vita nuova che ha bisogno di una storia e la poesia questo può fare: raccontarla.
In questo testo parlo di un quadro conservato al Metropolitan Museum di New York, si chiama “Due donne tahitiane”, di Paul Gauguin, scelto da Guanda come copertina della traduzione che mio padre fece delle lettere del pittore. Sei mesi dopo la morte di mio padre mi trovo a NY, di fronte a quel quadro che nella sua vita aveva significato così tanto. Io e quelle donne eravamo soli però in quel momento, orfani di quell’uomo… e in quel momento è arrivata la poesia, a raccontare qualcosa di nuovo, una vita nuova per me e per lui.
Certo la poesia, in quel frangente è stata anche altro: è stata un’esigenza, qualcosa cui aggrapparsi per non sprofondare. I primi testi del libro sono infatti stati scritti nelle prime tre ore dopo aver ricevuto la notizia della morte di mio padre. Sono testi dedicati al suo morire: una cosa così intima e così distante, uno sgarbo quasi. E allora la poesia mi ha raccontato ciò che non avevo potuto vedere, ciò che non avevo potuto vivere. È finzione quello che ne esce, è vero, ma siamo noi quelli rimasti, siamo noi che possiamo raccontare la storia che quindi diventa l’unica realtà possibile. La poesia può e sa nominare le cose: sta a noi lasciarglielo fare.
Alessandro Brusa