Una domanda al poeta: Alberto Pellegatta


 
Per scrivere un numero sufficiente di versi
bisogna essere stati nervosi molti giorni
 
in ulcerata gioia.
 
Statue senza colori indicano le finestre
hanno acconciature anni ’70, dei loro poeti
ci sembra più vicino Cavalcanti.
 
Non tutti verificano ciò che è stato fatto
– qualcosa a vent’anni che neanche ci si accorge
i primi movimenti del poemetto per la madre
una decina di liriche piombate.
 
Non è che ci sia poi tanto conforto
nei piccoli occhi epilettici dei fiori.
Un tetro calamaro muove invece
i suoi tentacoli nella mia testa, i tuoi concetti.
 
 
A. Pellegatta, Ipotesi di felicità (Mondadori, 2017)
 
 
 
 

In questa poesia, al centro della sezione L’impronta della specie, la quarta del tuo Ipotesi di felicità (Mondadori, 2017), si avverte quello che Leonardo Sinisgalli definì, paragonando la poesia alla matematica, una certa «felicità della fatica» (Calder scultore ingegnoso, in «Civiltà delle macchine», I,1, Roma, gennaio 1953, pp. 39-40), cioè «la tensione dell’intelligenza nello sforzo» (ibid.) quando si scrive. Partendo da questo vorrei chiederti quanto conta per te il lavoro di cesellatura prima di sentire che un pezzo abbia trovato il suo respiro, la sua misura. E, inoltre, avverti lo stesso tipo di sforzo da parte dei poeti usciti in questi anni con buoni risultati editoriali?

Riccardo Canaletti

 
 
 
 

La poesia che citi, oltre a indagare proprio il senso critico che dovrebbe sorreggere la scrittura poetica perché si differenzi dagli articoli di giornale – la costante messa in discussione dei risultati raggiunti -, è stata composta per lenta stratificazione, il suo montaggio è durato circa venti mesi. Per questo non scrivo più di un libro ogni dieci anni, perché posso perdere le notti su una sola virgola.

Il lavoro sul testo caratterizza la poesia, è il meccanismo che trasforma l’intuizione immaginativa in materia sonora. Grazie alla struttura del verso il linguaggio può superare il proprio orizzonte logico, trovando in se stesso i fondamenti costitutivi di una realtà eccedente. Quando, per esempio, un sostantivo incontra un aggettivo che non conosceva («ulcerata gioia»).

La cura necessaria al testo poetico risulta eroica in un’epoca di sciatteria e approssimazione come la nostra. La tensione ritmica è una questione squisitamente formale: il poeta spesso ripete banalità ma lo scarto sta nel modo in cui le scrive, è così che il testo perde il peso delle intenzioni. Senza la pazienza del labor limae non c’è poesia. Per me ogni singolo testo è un libro a sé stante, ogni poesia deve essere autosufficiente, la cura maniacale – l’architettura del volume può essere invece paragonata a una mostra, i cui singoli pezzi sono indipendenti tra loro anche se nel percorso espositivo seguono un filo rosso o un’idea estetica.

In assenza di studi stilistici, gran parte della sedicente poesia in circolazione si appiattisce sul significato e sull’esperienza (come quelle maestre terrorizzate dalla fantasia che segnavano in rosso le parole proibite), eppure molto è cambiato dai tempi di Eliot e dagli anni Sessanta, sono cadute le Torri e il pianeta va in picchiata verso la catastrofe climatica, sono cambiate le priorità: ciò che era progressista nel Dopoguerra o negli anni Sessanta oggi può risultare persino conservatore.

I social hanno reso tutto ancora più superficiale, ci nutrono di cattivo gusto, sono nemici della concentrazione necessaria alla poesia e all’arte. Passeranno, come tutte le mode. Come passerà quella dei corsi di poesia, quando si capirà che non si impara a scrivere versi seguendo delle formulette. Servono talento e molto studio, come in qualsiasi disciplina artistica. Se si dedicano le giornate all’autopromozione, sarà difficile trovare lo spazio per scrivere qualcosa di decente. Lo spiega bene H. M. Enzensberger in Mediocrità e follia. Considerazioni sparse (Garzanti, 1991).

Alberto Pellegatta

 
 
* la foto di Alberto Pellgatta è di Dino Ignani