Tra parola e mondo – Angelo Andreotti


Tra parola e mondo - Angelo Andreotti

Tra parola e mondo, Angelo Andreotti (Manni, 2021).

Angelo Andreotti (1960) dirige sia le Biblioteche che gli Archivi di Ferrara ed è collaboratore della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Tra parola e mondo (Manni, San Cesario di Lecce, 2021, pp.120, euro 14,00), edito nella collana “Pretesti” (a cura di Anna Grazia D’Oria), è il suo ultimo libro di poesie. La silloge di Andreotti, oltre ad avere un Prologo ed un Epilogo, è scissa in sei sezioni: Nel riposo del tempo, Colpi a vuoto, La macchia pura, Tra parola e mondo, Il dito sulle labbra, Ciò che viene da fuori.

Il titolo della quarta sezione, Tra parola e mondo (che si offre a farsi titolo anche dell’intera raccolta), è un verso preso in prestito dalla poeta scozzese Kathleen Jamie; verso tratto da La scogliera, una poesia edita nel volume La compagnia più bella (Milano, 2018), tradotto in Italia da Giorgia Sensi per i tipi di Medusa. Sulla scia della Jamie, dunque, il dire di Angelo Andreotti – un dire maturo e consapevole della sua forza – si staglia anch’esso tra il silenzio ed il frastuono (o, come direbbe la stessa Kathleen Jamie, tra «il banale e il mortale»), delineando un contrasto tra la terra e il cielo, tra le molteplici intensità che scandiscono gli eventi, tra «la fretta delle nuvole» e «un’acqua stanca»; perché il «fiume non tace, bisbiglia / lui la sua vita, sapendo l’incontro / da sempre in fondo alla sua corsa, acqua / della sua stessa natura, eppure / figlia del cielo anziché della terra».

Nel silenzio, tra le molteplici pieghe di questo libro, c’è sempre qualcosa che si nasconde e si sottrae, che si rannicchia e che, a tentoni, cerca di sfuggire alla sorte, ma altresì a sé medesimo, finendo per ritrovarsi accucciato nel silenzio, in uno scrigno di silenzio, a custodire brandelli di memoria. La natura intesa come concetto e la sua ombra, come oggetto, convivono, condensate in un ventaglio di sfumature emozionali, a difformi gradi d’intensità (per esempio: dall’inquietudine all’angoscia, come accade nella prima sezione, dove le «disperanti parole che dicono / ma non consolano, benché commuovano, / sfarinano i giorni sul letto»). Gli elementi naturali sono altresì protagonisti di un cielo totalizzante, al di sotto del quale «l’erba abbandonata cresce alta / e nasconde il perduto da trovare».

Un fattore delimitativo e, allo stesso tempo, rivitalizzante è l’evoluzione che si verifica lungo il corso di vita degli alberi: difatti, l’«impronta di un albero / che con pazienza sorseggia la luce», devoto alle sue radici, è l’ombra di chi è combattuto tra il restare ben radicato a «quel suo silenzio» ed il lasciarsi andare all’«assorto desiderio di volare» (a cui tendono pure le verdi chiome). Simbolo della vita, alter ego dell’io, della sua completezza e complessità, l’albero è sintesi memoriale dei legami affettivi del poeta. Non a caso, peraltro, la prima sezione della silloge, intitolata Nel riposo del tempo, è dedicata al padre del poeta.

Angelo Andreotti, con il suo poetare, innesta i suoi versi sulla necessità di stendersi a guardare ciò che lo circonda, nonché sul bisogno di osservarne tutti quei giochi chiaroscurali presenti in natura (dunque, nella realtà effettuale e tangibile del tempo presente), per imparare a distinguere ciò che è altro da sé, chiamare «casa questo mondo» ed individuare i confini per diventare straniero egli stesso. Il poeta è impegnato costantemente nel mettersi nei panni dell’altro, nell’atto di prendersi cura dell’altro quando «dorme il mondo» e donargli, brevemente, «giusto il tempo di una grazia» che la nostra «irripetibile presenza» dimostra vana nel perpetuarsi delle “assenze” che cadenzano l’andamento sentimentale dei rapporti (cui alludono le prime sezioni del libro in questione).
Molti i temi di questa raccolta poetica – ispirata anche dalle letture di autori del calibro di Attilio Bertolucci, Ferruccio Benzoni, Mark Strand e Silvia Bre –, dunque, oltre alla staticità e alla velocità con cui il tempo e la malattia trovano riparo nei loro rispettivi decorsi.

Vernalda Di Tanna

 
 
 
 
XI
 

isola di Mazzorbo (laguna di Venezia)

 
Il suono di notte s’inquieta.
La laguna si arresta e inizia il vento
da dove un’ombra di fatica scende
con ali bagnate di nebbia.
 
Qui la vita pesta i piedi:
schiaccia nel freddo la dimenticanza.
 
La terra è una spugna di mare
sotto un cielo sospeso per eccesso
di spazio. La lontananza è materia
che si tocca con la punta degli occhi.
 
 
 
 
 
 
V

Dalla finestra di casa, un albicocco

Ti vede l’albero dalla finestra,
ti chiama con voci di voli,
con urto di foglie, di vento
che alla morbida luce si affianca.
Verde è il suo passo rivolto al celeste
che tinge la fine del cielo
da lui immensamente sognato
pur restando devoto alla terra,
al sottosuolo, e a quel suo silenzio
che in forma di radici
 
ne trattiene
l’assorto desiderio di volare.
 
 
 
 
 
 
VII
 
Con breve inclinazione l’ombra scivola,
poi si nasconde volgendosi al muro
dove trascrive l’impronta di un albero
che con pazienza sorseggia la luce.
 
Sarà per l’aria abbondante di gialli
e di profumi aggallati che stendo
la mia ombra sulla terra e mi ci sdraio
 
e ti guardo, mio mondo,
con la sete di quell’albero.
 
 
 
 
 
 
IX
 
Ora che questa è la realtà, e minima
la differenza tra il sonno e la veglia,
nell’aperto del tuo sguardo, dritto
a un cuore che si tiene nascosto,
tu allunghi le tue dita
e sfiori la vena recisa
con quel po’ di dolcezza a sbriciolare
il duro del mondo. La vita
s’impasta con questa farina.
 
 
 
 
 
 
XVII
 
Mi appoggio a terra che odora di argilla,
tra ortiche e gelsi, sambuchi e tarassaco.
Qui distinguo i colori sfuggenti,
i rumori infrattati in cespugli
così fitti da togliere il passo.
Qui torno ogni tanto poiché
tutto ciò che il tempo mi ha perso
lo ritrovo nel tempo che mi ospita.