Tante volte nel giorno devastato – Gianfranco Lauretano

Ahi mia voce, mia voce.
Occlusa. Rinserrata.
Anche se per legame
musaico armonizzata.

(Giorgio Caproni)

 

Alcuni anni fa mi capitò di occuparmi a fondo della poesia di Giorgio Caproni. Mi chiesero ripetutamente di scrivere o intervenire in conferenze sulla sua opera. Passai così molto tempo a leggerlo: e più la lettura si approfondiva ed espandeva, più ne rimanevo affascinato. Entrai in contatto a tal punto con la voce di Caproni, da cominciare a scrivere come lui.

Ma mi spiego meglio. Immergersi nella lettura di Caproni significa essere permeati da un flusso eminentemente musicale. A me sembra un miracolo: con elementi minuscoli, in quantità e grandezza, con ridotti scarti fonetici, rime incastonate in struttura minimali e rigide, una continua e feconda disseminazione fonetica, Caproni riesce a delineare il volto paradossale e assoluto del suo essere. Entrare in empatia con lui non permette di uscirne indenni.

Potrei dire che l’ho imitato, e non me ne vergogno affatto: la storia dell’arte e della letteratura nascono incessantemente dall’imitazione dei maestri, cosa che Caproni è in tutti i sensi (io lo sono solo come suo collega). Ma non oso di affermare tanto. Diciamo che la sua scuola mi ha connesso con un dispositivo che i poeti conoscono bene, magari senza pensarci: la scaturigine del senso, addirittura del contenuto del loro discorso, è solo in parte corrispondente alle loro intenzioni.

C’è una parte di ciò che vogliamo dire che dipende dalle parole stesse, come se fossero dotate di vita propria: il senso sgorga dal loro suono, dalla posizione nella frase e nel verso, dall’a-capo, da quella lotta, tutta della poesia, tra sintassi e metrica, dove basta un accento per sconvolgere l’universo. Solo in parte controllabile dall’autore. Caproni era un mago nel provocare questo meccanismo, e nel goderne gli effetti semantici. Questa mia poesia, che appartiene a un gruppo di testi usciti affini da quel periodo, si mette dunque sulla scia del suo grandioso tentativo, ben consapevole dell’audacia che comporta il solo provarci.

Gianfranco Lauretano

 
 
 
 
Il valore
 
Il valore viene senza avvertimento
come un bel giorno come una resa
nel pieno del combattimento
un sorriso sopra il mento duro
che sguardava cinico e infuriato
e poi il cinismo, come per grazia,
se n’è andato, dentro al vento
dell’alba.
 
Vale la pena perché nella guerra
la frutta continua a maturare
la terra butta i fiori anche d’inverno
anche senza arare, gli animali
cercano il cibo e l’amore
e i bambini ridono e riderebbero
anche nel mezzo dell’inferno.
Perché tutto indica il contrario
della solitudine, tutto si apre
al cielo, che s’allarga come
un albero.
 
Vale la pena perché è valsa.
Tante volte nel giorno devastato
avanzavo per strade polverose
e inabitate, ma quando comparivi
cercavo di toccare il tuo mantello.
Vale aspettare persino nella polvere
e quando passerai fa’ che ti tocchi
quando apparirai fa’ che non guardi
altrove.
 
(Inedito)