STAZIONI 14 poemetti e quasi poemetti – 14 poesie e due congedi (1994-2017) – Eugenio De Signoribus


STAZIONI 14 poemetti e quasi poemetti – 14 poesie e due congedi (1994-2017), Eugenio De Signoribus (Manni Editore, 2018)

Avvicinare e accostarsi alla poesia di Eugenio De Signoribus, segnatamente di quella contenuta nella raccolta qui in esame da lui stesso definita un “emozionato lavoro”, appare esercizio impegnativo per l’abbacinante, stravolgente luce che essa emana, in un fulgore naturale e spontaneo, alieno da ogni artifizio. Tocchiamo con mano infatti una pura esattezza di forma e sostanza, un rintocco preciso della metrica, nell’etimo della parola, nel cadenzato fluire dei versi che ci conducono ad assistere con stupore e meraviglia all’insieme di ciò che ci viene inviato (e che viene recepito) a livello sensoriale e intellettivo. Come in un verso, che incrociamo all’interno del testo, siamo chiamati a stringere un “patto” con il poeta: essere, cioè, onesti (la sabiana memoria!) nel cogliere ogni singulto, ogni visione, ogni frammentaria immagine poiché solo in questo modo è possibile percepire l’urgenza espressiva del dire. Non c’è nulla, in tutta l’opera, che appaia scontato o artato, che si rifaccia a quell’autocelebrazione e autoreferenzialità smodate eppure trendy del nostro tempo, tutt’altro. L’occhio del marchigiano si volge al mondo che abita, denunciandone come può e sa errori ed orrori, al continente europeo ferito da nequizie ed egoismi, a una società cieca, gretta e miscredente in cui va in scena un “miserabile teatro”, a un ambiente e ad una natura violati continuamente i cui lamenti persistono come un’eco lontana, a un’antropizzazione inarrestabile, a disillusioni e relativismi di valori siano essi civili o religiosi: tutto ciò ammorba la civiltà moderna eppure tendiamo, in troppi, ad allontanarne il pensiero, a costruirci a mo’ di vana difesa una parallela dimensione come se la realtà fosse semplicemente un’illusione. Se questo è, allora la poesia può agire come faro quotidiano per il viandante, voce alta (in ciò con un richiamo a quella nobile, cristallina e precipuamente civile di un Raboni sul finire del Novecento), magma incandescente che erutta a interrompere il silenzio complice e colpevole e “l’ottusità piatta” sotto “la cappa del cielo”. È d’uopo richiamare un altro poeta insigne, il metafisico, onirico Caproni a cui va più di un omaggio per la frequentazione, la stima e l’incanto nell’ascoltarne i versi riemergenti delicati e sensibili, così autentici e veri. Analogamente si può affermare circa il debito di riconoscenza verso altre inclite figure di letterati, quella del ligure Giovanni Giudici, “osservato” nell’ultimo scorcio di esistenza in cui si pose come “voce da tempo muta”, e la luminosa persona di Mario Luzi, “il messo in croce” con insolenze e contumelie da “accaniti cecchini” per certe sue prese di posizione, o quella del generoso corregionale Paolo Volponi (“ventenne nell’evo più cupo”). Ebbene non ci sbagliamo se parliamo di De Signoribus come di un autore sincero (rara avis), che rifugge l’insidia della superficialità odierna o la canea montante sul nulla propinataci da certa cattiva maestra televisione e comunicazione: in lui risorge invece il fuoco vivo della parola, la bellezza della conoscenza che non è sterile apprendimento sibbene discesa e scavo nella profondità dell’animo umano e dei drammi epocali che ci stanno dinnanzi. C’è disperazione, certo, in questo appartato, umile e schivo autore del nostro tempo che non “rialza la testa” ed è anzi “sguardo ferito” (andando a ritroso ci pare di visualizzare l’icastica espressione di un ‘povero uomo tra poveri uomini’ di montaliana memoria), ma si rinviene altresì un’operazione di disvelamento, di stupefacenti epifanie di oasi di serenità. Esattezza, si diceva all’inizio: è tutta una poesia arguta, coincidenza con il dettato di una mente vivace e prolifica, che scandaglia l’esistenza offrendo prova, nuovamente, di un sostrato profondo e ampio. Da qui l’uso, per esempio, di termini rari (intronati, infumare, incredente, smantare) e il soffio vitale che s’eterna (“ma certo nessuno scompare finché un pensiero l’abbraccia”). Così, nella seconda parte della silloge, il dettato biblico incrocia l’attualità e si innesca una sorta di contrappuntistico registro in cui il protagonista della Legge si fa carne viva di un presente sordo e inane. Plurimi i richiami all’infanzia, età dell’oro quale colore della meraviglia (mentre l’orrore è nero e l’ira scarlatta), infanzia umiliata che assiste in solitudine alla bellezza dell’universo e al contempo alla sua distruzione: i bambini sono presenze che popolano sovente il testo in questione poiché, probabilmente, rappresentano le creature più vicine in sensibilità, coraggio primigenio e candore all’autore stesso a fronte di quella “eta di mezzo” nutrita di astuzia e stoltezza. In una delle poesie conclusive, che segnano una cesura rispetto ai poemetti iniziali, De Signoribus dichiara tutta la sua finitudine di uomo: “E resto fuori dalla perfezione, straniero sulla soglia di me”, una testimonianza che non può che riguardare ciascuno di noi.

Federico Migliorati

 
 
 
 
Esodo primo
 
Perdona la ripetizione ma
la sordida historia si ripete
 
in mille colpi e corpi in aria
in acque e gole sacrificali
 
né gli attori innaturali
sentono il battito della terra
 
l’unico, ovunque
 
la violenza va per le sue spicce
e mette micce anche alla roccia
 
di chi ha un dio…oh dio
 
l’odio è la vigna più fertile
e mai placherà la sua sete
 
 
 
 
 
 
Colori del sì e del no
(snaturare)
 
Passeggiando una sera d’ottobre
lungo una costicciola marina,
vedo una sghemba sequenza di case e casoni,
estesa quanto il braccio del luogo, immerso nel buio.
Solo una finestra illuminata tra le tante
incassate e cieche.
Solo forse una persona resistente alla solitudine
e al timore di quel vuoto notturno.
Più indulgente la cappa del cielo
con venature giallochiare sparse qua e là:
macchie d’estivi vapori che, rabbrividendo,
si estinguono.
 
 
 
 
 
 
Democrazia
 
Democrazia, forse mai stata,
o persa per via, o soffocata
sempre mira di potenti
vedute miopi o cieche
parole tradite o perdute
ma d’ogni dove rifluenti
dove gli umani barlumi
non sono mai spenti
o rinascenti alle braci
dei buoni ricordi…
Verso o dentro la fine
d’ogni evo mortale
pulsa sempre l’alfa
di lettere future
anima dei resistenti
consolazione dei morenti
parole custodite
per compiersi domani