L’ebrezza di essere – Fabio Barone

Gli elementi che compongono il paratesto spesso possono aiutare nella comprensione e nell’elaborazione di una raccolta di versi così come di un romanzo: se ad esempio il richiamo è a Marìa Zambrano, laddove citando il logos la filosofa iberica pone l’attenzione sulla cesura, sullo iato che si sostanzia tra parola e ragione con la poesia che si fa altresì irrazionale sviluppo della coscienza, ecco che ci apparirà più chiaro, maggiormente esaustivo, lavorare di cesello nella scoperta di un’opera matura e vivace, dalle cui profondità ctonie si riportano a galla stupefacenti verità. Fabio Barone, dopo un’importante gestazione, ci offre con L’ebrezza di essere (PeQuod, Rive, 2024) una prova consistente e sapida, pur nell’esiguità dei componimenti, di uno sviluppo «catartico», tra epifanie di emozioni, parresìa, sconfinamenti nell’intimità familiare e un abbraccio al mondo che lo circonda. Accanto a Zambrano assurgono a topos, a riferimenti illuminanti dei suoi versi, autori quali Rainer Maria Rilke e Pavel Florenskij, ma anche Paul Celan, in guizzi letterari abbaglianti, mentre la prefazione è affidata ad un altro nome di valore come Gianfranco Lauretano.

Attenta gestazione, si diceva: ed è proprio il tempo ampio, necessario a rielaborare come in un mosaico le varie tessere, a essersi incaricato di farne decantare la poesia, a macerarne il significato più proprio per apparire in tutta la sua nuda, fragile bellezza. Barone non è di quella schiera di poeti che tutto sanno e tutto dicono così diffusi oggigiorno segnatamente nel mondo digitale bensì gestisce il tempo di un «dolore innominabile» osservando con perenne emozione, con inscalfibile tenerezza l’esperienza di una vita che si produce e si dipana in frastagliate forme, tra decelerazioni improvvise e altrettanto subitanee ripartenze: notiamo ciò in quell’ode agrodolce alla madre che spicca per chiarore o nei versi dedicati al padre, definito iconicamente «nucleo del mio nucleo», con il rovello di una sofferenza, di un’assenza che trova al postutto una resilienza indomita.

Ogni cosa, dalla nascita che è fatica all’ultimo respiro, assurge a fonte di scrittura poiché è alimento di uno stato d’animo, traumatico o straordinario che sia: anche l’atto del venire al mondo («sono entrato scosso come da una febbre / nell’occhio meravigliato dell’alba») è cangiante modulazione di frequenza di un cuore forte e fiducioso nel domani. Radicato da sempre nel proprio intimo mondo geografico, ma «conteso» (si noti il distico in endecasillabi «vivevo nascente come un pensiero / nell’istmo desiderio di due terre»), il poeta abruzzese non teme di incistare nel proprio sedimentato essere l’età verde della fanciullezza quando la corale esuberanza tramutava gli Io in Noi, o le immagini chiareggianti nella memoria di protagonisti conosciuti del suo universo (la libraia, il dottore, lo scultore cieco, l’immigrato, la cara amica, tutte gemme inserite nella sezione In dialogo con Pescara) il cui viaggio terreno è stato lievito e linfa, scaturigine di «una visione» nella polvere, per non tacere del dramma epocale di una pandemia concepita come «lungo letargo».

«L’ebrezza dell’essere» è allora dolcezza senza termine, timido gesto di deferenza ch’è carattere e scrittura insieme di questo artista in versi, nella gioia leggera e fragile che si palesa nel viatico spesso sferzato dall’infuriare delle vicende. Ed è nel mito che il poeta si «scopre» alfine guerriero, nella prova più difficile e inebriante insieme, quella di suggere la vita, di esserne corpo e forma, linea e sostanza allo stesso tempo. Nel composito palcoscenico poetico nulla sembra essere salvifico per sempre, nemmeno la parola che sa cogliere «appena il tuo segreto» limitandosi a gestire l’hic et nunc di una bellezza sfuggente, inafferrabile: di fronte a tale verità «la porta della mia voce è aperta» con «il verbo che scotta», in ciò inferendo ciò che sosteneva Giovanni Giudici per il quale «è più facile morire che nascere / e l’essere è più del dire».

Federico Migliorati

 
 
 
 
Se c’è un modo di vivere la vita,
come saperlo, non saperne nulla…
una voce mi precede e sussulta
vede quel che io non vedo e lo fa prima,
prima di ogni resa dentro la carne
nasce come da un frutto la sua spina,
mi giunge come un’offerta divina
non priva di spasmi e di sofferenze.
È un’obbedienza insolita, che muta,
appena le do un nome lo rifiuta
e porge il suo sguardo altrove, lontano,
già pronta a rimettersi sul cammino.
Così la inseguo ma lei è sempre in testa,
fa di me un rito, un inno ad una festa.
 
 
 
 
 
 
Una libraia
 
È quello il luogo che la richiamava
sin da quando voltando ogni pagina
conosceva il suo dal mondo di un altro,
e a saperne di più non ha mai smesso.
Tra segni e sillabe intuiva nascere
il seme di una scelta, maturato
dentro una serra di errori e distanze
quasi fosse un concime necessario.
Dopo tanti lavori e altro girare
entra nel mondo con passi più fermi:
davanti lo specchio che la riflette
riconosce la figura che era e che è,
perché ritorna alla sua libreria
come una bambina nella sua stanza.
 
 
 
 
 
 
Albero di primavera, torsione
nervosa e scomposta di ogni braccio
in fiore, il bianco e il rosa che in te cresce
a palmi disinnesca ogni ferita,
è tua la stagione che riverbera
per vestire un corpo che non ha nome,
quel che radica al buio della terra
per slanciare come colonna nell’aria.
Tutto quel che in te fiorisce mi chiede
di essere detto, ma questa parola
che si fa ritmo alla tua gioia e coglie
appena il tuo segreto non dimora
che in pochi lampi, istanti sconfinati
per sentire il bello fino a morirne.