Quando Orfeo prese il posto di Cornelio Gallo

Se c’è una ragione per leggere ancora oggi le Georgiche, il poema scritto da Virgilio negli anni Trenta del I secolo a.C., è il bellissimo mito di Orfeo con cui quel poema si chiude. Orfeo era un cantore straordinario: la musica che suonava, pizzicando le corde della sua lira, aveva un tale fascino che persino le belve si ammansivano, mentre alberi e rocce lasciavano le loro sedi e si accostavano a lui per ascoltarlo. Del resto, si diceva che a generarlo fosse stata Calliope, la Musa dalla dolce voce, o addirittura Apollo, dio della poesia e a sua volta provetto suonatore di cetra. A Orfeo si accompagnava una ninfa, la bellissima Euridice; ma presto, troppo presto – qualcuno dice addirittura nel giorno stesso del loro matrimonio –, il loro idillio era stato troncato dalla morte. In preda a un dolore insanabile, Orfeo aveva preso allora una decisione senza precedenti: sarebbe sceso nell’oltretomba, per chiedere alle divinità che governano quel mondo di tenebra di rendergli la donna amata. Per gli antichi, del resto, il regno dei morti non si colloca in un altrove irraggiungibile, ma è collegato attraverso una serie di varchi e passaggi allo spazio dei viventi e questi ultimi, almeno in casi eccezionali, possono scendere in esso ed entrare in relazione con le esangui figure che lo abitano.

Giunto di fronte ai signori del mondo di sotto, dopo aver percorso un sentiero ripido come quello che conduce tutti noi alla morte, Orfeo aveva imbracciato la sua lira. Così, quello spazio per definizione silenzioso, disertato da ogni suono o rumore, aveva conosciuto per la prima e ultima volta nella sua storia la musica, mentre una melodia malinconica, struggente e dolcissima si sprigionava dalle corde e volteggiava nell’aria bruna, incalzata da note sempre nuove. Chi fosse stato presente in quel momento alla scena avrebbe visto Plutone e sua moglie Persefone fare qualcosa di cui mai sino a quel momento li si sarebbe creduti capaci: piangere. Intanto le ombre dei trapassati si assiepavano fitte intorno a Orfeo, emergendo dal buio che avvolgeva il cantore, e persino gli strumenti destinati al supplizio dei dannati smisero per un lungo attimo di infliggere la loro ciclica tortura.

Orfeo ottenne allora ciò che per cui era venuto, ma a una condizione: Euridice sarebbe tornata insieme con lui nel mondo dei vivi, ma l’uomo non si sarebbe voltato a guardarla finché entrambi non fossero emersi alla luce, perché non è lecito a un vivo vedere quello che appartiene alla morte. Orfeo osservò scrupolosamente la consegna; ma quando ormai era a un passo dall’ingresso che poco prima aveva percorso in senso contrario, il suo amore non resse: si girò e subito Euridice venne risucchiata verso il basso, dileguandosi come fa un velo sottile di nebbia, mentre si sentivano sempre più lontane le sue parole di lamento per la follia che aveva perduto entrambi. Perché a nessuno, neanche al più straordinario dei cantori, è dato percorrere all’indietro la strada che conduce alle ombre.

Eppure, questo racconto meraviglioso avremmo potuto non leggerlo mai: nella loro prima stesura, le Georgiche terminavano infatti in tutt’altro modo e al posto del mito di Orfeo c’era un lungo elogio di Cornelio Gallo, lo stesso cui Virgilio aveva già dedicato, dieci anni prima, il pezzo conclusivo della sua prima raccolta poetica, le dieci Bucoliche. Gallo era un amico fraterno di Virgilio e insieme un poeta di primissimo piano; si era però impegolato nella grande politica, uscendone stritolato. A quanto pare, quando Augusto lo aveva messo a capo dell’Egitto, l’immenso territorio annesso all’impero dopo la morte della sua ultima regina, la fascinosa Cleopatra, Gallo aveva preso a condurre una sua politica autonoma, intestandosi obelischi nei quali inneggiava a sé stesso come a un novello faraone. Ragione per cui era stato rimosso dal suo incarico, processato e indotto a darsi la morte, appena un paio d’anni dopo il momento in cui le Georgiche avevano visto la luce. Augusto aveva così ordinato a Virgilio di riscrivere il finale di quel poema, eliminando il compromettente elogio del cortigiano caduto in disgrazia.

E Virgilio? Obbedì, non aveva alternative. Ma forse non del tutto. Forse, raccontare la storia del cantore Orfeo costretto infine a cedere di fronte a un potere più forte del suo fu per lui un modo criptico di alludere a Gallo e alla sua fine prematura. Un’allusione che Augusto non colse, o finse di non cogliere, per buona sorte di Virgilio. E anche, va detto, per buona sorte di tutti noi, che abbiamo così un bellissimo motivo per rileggere le Georgiche.

Mario Lentano