Speciale: un’intervista a Paola Loreto

Primitivo americano, premio Pulitzer per la poesia nel 1984 e National Book Award, è il libro più noto di Mary Oliver, nata in Ohio nel 1935 e morta in Florida nel 2019, una degli ecopoeti più importanti degli Stati Uniti, autrice poco conosciuta in Italia, ma molto popolare e amata dal pubblico americano. Definita dal «New York Times» come «il poeta americano più venduto», Paola Loreto, poeta e docente di Letteratura angloamericana all’Università degli Studi di Milano, propone per la collana bianca di Einaudi un’autorevole e appassionata traduzione con testo a fronte della raccolta poetica in cui risuonano le voci visionarie di Walt Withman, Emily Dickinson, Marianne Moore, Robert Frost, Henry David Thoreau e Ralph Waldo Emerson, tra i maggiori autori della letteratura nordamericana che hanno celebrato la misteriosa wilderness. Quello della Oliver, come dice bene Paola Loreto nella prefazione, è stato definito un «panteismo ecologico», un «misticismo ecocentrico» presentato attraverso «un innario di lode alle creature naturali in cui la tentazione della fusione nasce dal sentimento della coestensione, fisica, del proprio corpo, con il loro». Tutto questo è frutto di una ricerca del silenzio che l’appartata autrice ha compiuto per tutta la vita passeggiando in ettari ed ettari di boschi, di foreste e cespugli selvatici della sua amata Cape Cod, come un cammino panico e mistico che l’ha vista respirare e trasformarsi in tutt’uno con la natura di questo pianeta sofferente.

Anita Piscazzi

 
 

Anita Piscazzi: Mary Oliver è stata la più letta e la più celebrata rappresentante della poesia ecologista statunitense. Perché ha scelto di tradurre proprio lei?

Paola Loreto: Per i motivi che cita: perché ha catturato e cattura un pubblico da best-seller di poesia, e perché il suo ecocentrismo è un atteggiamento profondo, che riposa su una intelligenza filosofica. Inoltre, ho sentito il suo stile, il suo linguaggio poetico, vicini alla mia sensibilità, e questa mi sembrava una buona base per un lavoro di traduzione importante come quello del volume, tra i suoi, che l’ha portata all’attenzione di così tanti lettori e le ha meritatamente guadagnato il Pulitzer Prize.

 

A.P. Quella di Primitivo americano è un’ars amandi nei confronti della natura, una continua metamorfosi dell’umano nel non-umano, dove la percezione e l’emozione vengono prima della ragione, dove i sensi contano di più della materia. Qual è l’eredità che ci lascia la Oliver?

P.L. È l’eredità a cui hanno cercato di contribuire molti ecopoeti, e cioè una rivoluzione post-cartesiana, che riscopre l’importanza del nostro corpo nel processo cognitivo. Come stanno confermando le neuroscienze, la nostra conoscenza è incarnata e imbrigliata nelle relazioni materiali che regolano l’ecosistema (o gli ecosistemi) di cui facciamo parte. L’ecopoesia ha da sempre rivendicato una conoscenza che tornasse a riguardare le cose e fosse consapevole di una continuità, piuttosto che una frattura, tra natura e cultura. Ha anticipato molte idee del post-umanesimo, a partire dal decentramento del soggetto umano nella nostra visione del mondo. Accorgerci, per esempio, che condividiamo alcune esperienze materiali ed emotive con gli animali, ci ha aiutati a superare le divisioni nette tra specie che avevamo instaurato. La poesia di Mary Oliver rappresenta una coscienza istintiva di questo, per esempio nel modo in cui elide gli opposti binari tra uomo (o donna) e animale, o mette in scena la capacità di comunicare dei cani (in “Dog Songs”). Il messaggio è chiaro: non siamo superiori perché pensiamo e usiamo il linguaggio; gli animali, e in particolare in questo caso i cani con cui qualcuno di noi trascorre molti anni della sua vita, prendendosene cura, “ascoltandoli”, hanno il loro linguaggio (come ci conferma la biosemiotica), e forse siamo noi a non comprenderlo, se non lo vogliamo.

 

A.P. Tradurre è un po’ tradire il senso di un’altra lingua e lo stile di un autore. Sente di aver tradito la visionarietà della poeta e in qualche maniera il suo stile?

P.L. L’obiettivo che mi sono preposta era di non farlo mai, e spero di averlo perseguito a sufficienza. Come dicevo, partire da una base di sintonia nello stile aiuta a non andare troppo lontano dal testo fonte. L’ammirazione che ho sempre avuto per l’apparente semplicità del linguaggio di Oliver, che in realtà è frutto di un raffinato lavoro di lima e calibratura, per il suo tono colloquiale e mai gergale, per la fine tessitura delle sue trame sonore e ritmiche, mi ha portata a coltivare l’intenzione di riuscire in qualche modo a renderne il gusto, il sapore, in italiano.

 

A.P. Qual è stata la prova più delicata nella traduzione di questa raccolta?

P.L. Forse, per l’appunto, la scelta che si propone molto spesso tra la precisione linguistica – diciamo una sorta di fedeltà assoluta al significato letterale – e la tenuta in tensione del linguaggio poetico. Come è noto l’inglese offre quasi sempre una forma più breve, tesa, mentre l’italiano porta a deragliare dal binario del ritmo, con i suoi polisillabi e le sue costruzioni poco sintetiche. Il problema è che l’idea di fedeltà al significato letterale è superata, come – per teorici come Lawrence Venuti, per esempio – ogni idea di inseguimento di una corrispondenza tra testo fonte e testo di arrivo. Ogni traduzione è un atto di interpretazione, condizionato dalla cultura letteraria della lingua di arrivo. Dunque, per esempio, i versi 30-31 di “Musica” (Do you think the heart | is accountable? Do you think the body | any more than a branch […]”, dopo molto patimento, sono diventati, felicemente, l’agile e naturale “Pensi sia colpa | del cuore? pensi lo sia del corpo | più che di un ramo […]”, dopo che ho rinunciato a “Pensi che il cuore | ne sia responsabile? Pensi lo sia il corpo […]”. Una delle pecche più frequenti delle traduzioni italiane dalla poesia americana è la letterarietà. Perseverare nell’errore, con Mary Oliver, sarebbe stato un delitto.

 

A.P. Esiste un’etica della traduzione?

P.L. Certo. La prima scelta etica è chi e cosa tradurre: ogni scelta di testo e autore da tradurre, insegna ancora Venuti – e con lui altri teorici della traduzione internazionale – contribuisce alla costituzione di un canone di traduzioni nella cultura della lingua di arrivo. Orienta la cultura del paese o dei paesi in cui quella lingua è parlata. E come dicevo, ogni scelta traduttiva costruisce un’interpretazione del testo, secondo il modello di traduzione ermeneutico. E ogni scelta presuppone e veicola un valore etico. È una bella responsabilità.

 

A.P. Quanto può essere importante nella poesia promuovere il cambiamento del nostro rapporto nei confronti della natura e dell’ecosistema?

P.L. Lo è forse, nella poesia, per eccellenza. Come viene lamentato da molte parti, sembra che il linguaggio della scienza, apparentemente così evidente e inoppugnabile, non sia sufficiente a mettere in crisi i nostri comportamenti. La catastrofe ambientale ha tempi così lunghi da consentirci di non percepirla e di continuare a vivere come facciamo: producendola, a danno di un ecosistema di cui siamo parte, e dunque, paradossalmente, colpendo noi stessi tra le vittime principali. La poesia, con il suo linguaggio che è anche un linguaggio del corpo, perché la sua fruizione passa attraverso i sensi, può essere uno strumento per commuoverci, attraverso l’emozione e l’empatia che genera nel lettore, e quindi muoverci a comportamenti diversi. È un linguaggio letterario altamente eloquente, e l’eloquenza ha un grande potere – o almeno potenziale – di persuasione.

 
 
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